La bambina piccola, messa a dormire accanto al muro, russava leggermente. Le persone della camera accanto ritornarono a casa dalla mensa, si udì sbattere una porta, qualcuno nella piazza diede la buona notte ed ebbe risposta da una finestra aperta. Il grosso domicilio, duecento stanze, era desto, tranquillamente vivo intorno a loro; come la loro esistenza entrava nella sua, così la sua esistenza entrava nella loro, una parte di una totalità. Infine Sedik scivolò via dalle ginocchia del padre e si sedette sulla predella, al suo fianco, accanto a lui. I suoi capelli neri erano arruffati e le scendevano davanti agli occhi.
— Non volevo dirvelo perché… — la voce della bambina suonava sottile e bassa. — Ma diventa sempre peggio. Una spinge l’altra.
— Allora non devi più tornarci — disse Shevek. La circondò col braccio, ma lei gli resistette, rimase a sedere eretta.
— Se andassi a parlare io… — disse Takver.
— Non serve a niente. Non cambiano idea.
— Ma contro che cosa ci siamo messi? — chiese Takver, stupita.
Shevek non rispose. Continuò a circondare Sedik con il braccio, ed ella infine cedette, appoggiando la testa contro il suo braccio, con stanchezza, con pesantezza. — Ci sono altri centri d’apprendimento — disse infine, senza molta sicurezza.
Takver si alzò. Non riusciva a starsene ferma, e voleva fare qualcosa, agire. Ma non c’era molto da fare. — Lascia che ti pettini, Sedik — disse a bassa voce.
Pettinò i capelli della bambina e li dispose a treccia; poi misero il paravento in mezzo alla stanza e infilarono Sedik accanto alla bambina piccola, che dormiva. Sedik stava quasi per scoppiare un’altra volta in lacrime nel dare loro la buona notte, ma in meno di un quarto d’ora compresero dal suo respiro che si era addormentata.
Shevek si era seduto ai piedi della loro predella con un quaderno per appunti e la lavagna che usava per calcolare.
— Ho messo le pagine al manoscritto — disse Takver.
— Quante pagine erano?
— Quarantuna, con le appendici.
Egli annuì. Takver si alzò in piedi, guardò dietro il paravento le due bambine addormentate, ritornò e si sedette sull’orlo della predella.
— Sapevo che c’era qualcosa che non andava. Ma non mi aveva detto niente. Non mi ha mai detto niente, è stoica. Non pensavo che fosse così. Pensavo che fosse soltanto un nostro problema, non mi è venute in mente che potessero prendersela con i nostri figli. — Takver parlava piano, con amarezza. — Aumenta, aumenta sempre più… Pensi che in un’altra scuola sarebbe differente?
— Non so. Se passerà molto tempo con noi, probabilmente no.
— Non vorrai mica dire che…
— No. Ho solo detto una realtà di fatto. Se scegliamo di dare alla bambina l’intensità dell’amore individuale, non possiamo evitarle ciò che gli si accompagna, il rischio del dolore. Dolore da noi, e attraverso di noi.
— Non è giusto che debba essere tormentata per ciò che facciamo noi. È così brava, così gentile, è come l’acqua chiara… — Takver tacque, soffocata da un breve accesso di lacrime, si asciugò gli occhi, strinse le labbra.
— Non è «ciò che facciamo noi». È ciò che faccio io. — Abbassò il quaderno. — Anche tu hai sofferto per questo.
— Non m’importa quello che pensano.
— Sul lavoro?
— Posso scegliere un altro posto.
— Non qui, non nel tuo campo.
— Be’, vuoi che vada da un’altra parte? I laboratori di Sorruba a Pace e Abbondanza mi prenderebbero. Ma tu dove andresti? — Lo fissò. — Resteresti qui, penso.
— Potrei venire con te. Skovan e gli altri studiano lo iotico, tra un po’ saranno in grado di occuparsi della radio, ed è questa attualmente la mia principale funzione al Gruppo. Posso occuparmi di fisica a Pace a Abbondanza come qui. Ma a meno che io non mi tolga direttamente dal Gruppo dell’Iniziativa, questo non risolve il problema, no? Il problema sono io. Sono io quello che dà origine ai fastidi.
— Darebbero peso alla cosa, in un piccolo paese come Pace e Abbondanza?
— Temo di sì.
— Shevek, quanto di questo odio hai già incontrato tu? Anche tu sei rimasto zitto, come Sedik?
— E come te. Be’, a volte. Quando sono andato a Concordia, la scorsa estate, le cose sono state un po’ peggiori di quanto non ti abbia detto. Hanno tirato pietre e c’è stata anche baruffa. Gli studenti che mi avevano chiesto di andare hanno dovuto fare a pugni per difendermi. Ma io me ne andai subito; li mettevo in pericolo. Be’, gli studenti amano il pericolo. E dopotutto abbiamo chiesto noi la rissa, abbiamo deliberatamente agitato la gente. E c’è un mucchio di gente con noi. Ma ora… ora comincio a chiedermi se non metto in pericolo te e i bambini, Takver. Rimanendo con voi.
— Tu non sei in pericolo, vero? — disse lei, con violenza.
— Io l’ho chiesto. Ma non avevo pensato che avrebbero esteso a voi il loro risentimento tribale. Il sentimento che provo verso il vostro pericolo non è come quello che provo verso il mio.
— Altruista!
— Forse. Non posso farci nulla. Mi sento responsabile, Takver. Senza di me, voi potreste andare dove volete, o rimanere qui. Tu hai lavorato per il Gruppo, ma la cosa che ti rimproverano è la tua fedeltà a me. Io sono il simbolo. Perciò non c’è nessun posto… dove potrei andare.
— Vai su Urras — disse Takver. La sua voce era così dura che Shevek arretrò come se avesse ricevuto uno schiaffo.
Takver non sostenne il suo sguardo, e ripeté, più piano: — Vai su Urras… Perché no? Laggiù ti vogliono. Qui non ti vogliono! Forse cominceranno a vedere cosa hanno perduto, quando te ne sarai andato. E tu hai voglia di andarci. Me ne sono accorta questa sera. Non ci avevo mai pensato, prima, ma quando abbiamo parlato del premio, a pranzo, me ne sono resa conto, dal modo in cui sorridevi.
— Io non ho bisogno di premi e compensi!
— No, ma hai bisogno di sentirti apprezzato, e di discutere, e di studenti… senza che ci sia attaccato nessun codicillo di tipo Sabul. E ascolta. Tu e Bedap parlate sempre di spaventare il CDP con l’idea che qualcuno vada su Urras per dimostrare il suo diritto all’auto-determinazione. Ma se ne parlate sempre e nessuno va, non fate altro che irrobustire la loro parte… dimostrate soltanto che il costume è infrangibile. Ora che avete portato la questione a una riunione del CDP, qualcuno dovrà andare. E quel qualcuno devi essere tu. Hanno chiesto che tu vada laggiù; hai una ragione per andare. Vai a prendere la tua ricompensa… il denaro che hanno messo da parte per te — terminò, con una risata improvvisa e genuina.
— Takver, io non ho voglia di andare su Urras!
— Sì, invece; so che l’hai, anche se non so bene perché.
— Be’, naturalmente mi piacerebbe conoscere alcuni dei fisici… e vedere i laboratori di Ieu Eun dove fanno esperimenti con la luce. — Pareva vergognoso di dirlo.
— È tuo diritto farlo — disse Takver, con fierezza e sicurezza. — Se è parte del tuo lavoro, dovresti andare.
— Contribuirebbe a tener viva la Rivoluzione… da entrambe le parti… non ti pare? — disse. — Che folle idea! Come nella commedia di Tirin, ma al contrario. Io che vado a sovvertire gli archisti… Be’, almeno dimostrerebbe loro che Anarres esiste. Parlano con noi alla radio, ma non penso che credano realmente in noi. In ciò che siamo.
— Se lo credessero, potrebbero spaventarsene. Potrebbero venire qui e cancellarci via dal cielo, se tu riuscissi davvero a convincerli.
— Non credo. Io potrei fare un’altra piccola rivoluzione nella loro fisica, ma non nelle loro idee. È qui, qui su Anarres, che io posso avere influenza sulla società, anche se qui non vogliono prestare attenzione alla mia fisica. Tu hai ragione. Ora che ne abbiamo parlato, dobbiamo farlo. — Ci fu una pausa. Poi disse: — Mi chiedo che tipo di fisica facciano le altre razze.