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— Quali altre razze?

— Gli stranieri. Gente di Hain e di altri sistemi solari. Ci sono due ambasciate straniere su Urras: Hain e Terra. Sono stati gli Hainiti a inventare il motore interstellare che gli urrasiani usano oggi. Penso che lo darebbero anche a noi, se fossimo disposti a chiederlo. Sarebbe interessante… — Non terminò.

Dopo un’altra, lunga pausa, si voltò verso di lei e disse in tono diverso, sarcastico: — E tu, che cosa faresti mentre io andrei a visitare i proprietaristi?

— Andrei sulla costa di Sorruba con le bambine, a vivere una tranquilla vita di tecnico di laboratorio dei pesci. Fino al tuo ritorno.

— Ritorno? Non so se potrei ritornare.

Lei lo fissò negli occhi. — Che cosa te lo impedirebbe?

— Forse gli urrasiani. Potrebbero trattenermi. Laggiù nessuno è libero di andare e venire come gli pare, lo sai. O forse la nostra stessa gente. Potrebbero impedirmi di scendere. Alcuni, al CDP, hanno minacciato di farlo, oggi. Rulag era una di loro.

— Rulag lo farebbe. Rulag conosce soltanto la negazione. Soltanto come negare la possibilità del ritorno a casa.

— È perfettamente vero. La definisce completamente — disse lui, raddrizzando la schiena e fissando Takver con ammirazione. — Ma Rulag non è la sola, purtroppo. Per molte persone, chiunque andasse su Urras e cercasse di tornare indietro sarebbe semplicemente un traditore, una spia.

— E che cosa farebbero, concretamente?

— Be’, se convincessero la Difesa del pericolo, potrebbero abbattere la nave.

— E la Difesa sarebbe tanto stupida?

— Non credo. Ma chiunque, al di fuori della Difesa, potrebbe fare degli esplosivi con polvere da mina e far saltare la nave una volta atterrata. Oppure, com’è più probabile, assalirmi una volta che io sia sceso dalla nave. Credo che questa sia quasi una certezza. Dovrebbe venire inclusa in ogni progetto di viaggio di andata e ritorno nelle zone turistiche di Urras.

— E varrebbe la pena per te… affrontare il rischio?

Per un lungo istante, egli fissò nel vuoto. — Sì — disse. — In un certo senso varrebbe il rischio. Se potessi finire la teoria laggiù, e darla a loro… a noi, a loro, a tutti i mondi, capisci… mi piacerebbe farlo. Qui mi sento chiuso tra muri. Anchilosato. Mi è difficile lavorare, fare esperimenti, sono sempre senza strumenti, senza colleghi e senza studenti. E quando faccio il lavoro, non lo vogliono. Oppure, se lo vogliono, come Sabul, vogliono che io abbandoni l’iniziativa in cambio delle approvazioni. Useranno il lavoro che faccio, dopo che sarò morto: succede sempre così. Ma perché devo dare il lavoro di tutta la mia vita in regalo a Sabul, a tutti i Sabul, ai meschini, intriganti, avidi di un singolo pianeta? Io vorrei condividerlo. È un grande campo, quello in cui lavoro. Dovrebbe venire dato in giro, passato agli altri. Non c’è certamente il pericolo che si esaurisca!

— Allora, d’accordo — disse Takver. — Vale il rischio.

— Vale cosa?

— Il rischio. Di forse non poter tornare.

— Non poter tornare — egli ripeté. Fissò Takver con uno sguardo strano, profondo, eppure distratto.

— Penso che ci sia molta più gente dalla nostra parte, dalla parte del Gruppo, di quanto non pensiamo. Si tratta soltanto del fatto che finora non abbiamo ancora fatto molto… non abbiamo fatto nulla per raccoglierli… non abbiamo corso alcun rischio. Se tu corressi il rischio, credo che verrebbero ad aiutarti. Se tu aprissi la porta, fiuterebbero di nuovo l’aria pura, fiuterebbero la libertà.

— E potrebbero buttarsi di corsa a chiudere la porta.

— Se lo faranno, peccato per loro. Il Gruppo potrà difenderti quando atterrerai. E poi, se la gente sarà ancora così ostile e piena di odio, la manderemo all’inferno. Che vale una società anarchica che ha paura dell’anarchia? Andremo a vivere al Solitario, a Sedep Superiore, all’Infimo, andremo a vivere in solitudine sulle montagne, se occorrerà. C’è posto. Ci sarà gente che verrà con noi. Faremo una nuova comunità. Se la nostra società scivola verso la politica e la ricerca del potere, allora noi la lasceremo, faremo un’Anarres dopo Anarres, un nuovo inizio. Che ne dici?

— Bellissimo — disse lui, — bellissimo, cara. Ma io non andrò su Urras, lo sai.

— Oh, sì, invece. E tornerai — disse Takver. I suoi occhi erano molto scuri, un’oscurità morbida, come quella di una foresta nella notte. — Se decidi di farlo. Tu arrivi sempre dove ti proponi di andare. E torni sempre indietro.

— Non dire sciocchezze, Takver. Io non vado su Urras!

— Sono stanca — disse Takver, stirandosi e piegandosi per appoggiare la fronte contro il suo braccio. — Andiamo a dormire.

CAPITOLO 13

Prima che lasciassero l’orbita, gli oblò erano pieni del turchese nebbioso di Urras, immenso e bellissimo. Ma la nave si voltò, e le stelle giunsero in vista, e Anarres tra queste, simile a una pietra rotonda e luminosa: in movimento eppure immota, scagliata da una mano che, descrivendo cerchi senza tempo, crea il tempo.

Mostrarono a Shevek tutta la nave: l’astronave interstellare Davenant. Era molto diversa dal mercantile Pensiero. Dall’esterno appariva bizzarra e fragile come una scultura di vetro e fil di ferro; non aveva l’aspetto di una nave, di un veicolo: non aveva neppure un’estremità anteriore e una posteriore, poiché non viaggiava mai in un’atmosfera che avesse consistenza maggiore di quella del vuoto interplanetario. All’interno era spaziosa e robusta come una casa. Le stanze erano grandi e intime, le pareti erano coperte di pannelli di legno o di tappezzerie in stoffa; i soffitti erano alti. Solamente, era una casa con gli scuri accostati, poiché poche cabine avevano oblò, ed era molto tranquilla. Anche il ponte e le sale motori avevano la stessa tranquillità, e le macchine e gli strumenti avevano la stessa semplicità e praticità di forma degli apparati di una nave a vela. Per la ricreazione c’era un giardino, la cui illuminazione aveva le caratteristiche della luce solare, e l’aria era dolce dell’odore del terreno e delle foglie; durante la notte della nave il giardino veniva oscurato, e i suoi oblò aperti sulle stelle.

Anche se i viaggi interstellari duravano soltanto alcune ore o alcuni giorni di nave, un’astronave a velocità prossima a quella della luce come questa poteva passare mesi ad esplorare un sistema solare, o anni in orbita intorno a un pianeta dove l’equipaggio fosse sceso a vivere o esplorare. Pertanto era fatta in modo spazioso, a misura umana, abitabile, per coloro che dovevano vivere a bordo. Il suo stile non aveva né l’opulenza di Urras né l’austerità di Anarres, ma toccava l’equilibrio tra i due, con quella grazia priva di sforzo che è caratteristica della lunga pratica. Si poteva immaginare di condurre quella vita ristretta senza irritarsi per le sue restrizioni, accontentandosi, meditando. Erano gente meditabonda, gli Hainiti dell’equipaggio: individui civili, controllati, piuttosto cupi. C’era poca spontaneità in loro. Il più giovane degli Hainiti a bordo pareva più vecchio di ciascuno dei Terrestri.

Ma Shevek non li osservò molto, Terrestri e Hainiti, nel corso dei tre giorni in cui il Davenant, viaggiando a propulsione chimica a velocità convenzionali, effettuò il tragitto da Urras ad Anarres. Replicava quando gli parlavano; rispondeva volentieri alle domande, ma ne rivolgeva poche. Quando parlava, parlava da un silenzio interiore. Le persone del Davenant, soprattutto le più giovani, erano attratte da lui, come se egli avesse qualcosa che a loro mancava o se fosse qualcosa che esse desideravano essere. Parlavano molto tra loro, ma erano timide con lui. Egli non se ne accorse. Non badava quasi a loro. Badava soltanto ad Anarres, davanti a sé. Badava alla speranza ingannata e alla promessa mantenuta; all’insuccesso; e alle sorgenti entro lo spirito, finalmente dissigillate, di gioia. Era un uomo liberato dalla prigione, che tornava a casa alla famiglia. Ogni cosa che un simile uomo vede lungo il proprio cammino, egli la vede soltanto come riflessi di luce.