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Dimentico della stanchezza del suo Ragno, Carcolo lo frustò, obbligandolo a proseguire. Il muschio verde-grigio schizzava via sotto le zampe scalpitanti, la testa sottile penzolava, la bava colava dalle branchie. Carcolo non se ne curava. Nella sua mente c’era posto solo per l’odio… odio per i Basici, per Joaz Banbeck, per Aerlith, per l’uomo, per la storia umana.

Quando fu nei pressi della Guardia del Nord, il Ragno barcollò e cadde. Giacque gemendo, con il collo proteso e la coda pendula. Carcolo smontò, esasperato. Si voltò a guardare il lungo declivio ondulato dello Skanse, per vedere quanti dei suoi l’avevano seguito. Un uomo che cavalcava un Ragno, a velocità moderata, si avvicinò. Era Bast Givven. Si accostò al Ragno caduto. — Allenta la sottocinghia. Si riprenderà prima. — Carcolo aggrottò la fronte, credendo di percepire un tono nuovo nella voce di Givven. Tuttavia si chinò sul drago caduto e slacciò la grossa fibbia di bronzo. Givven smontò, si stirò le braccia, si massaggiò le gambe magre. Poi tese una mano. — La nave dei Basici scende nella Valle dei Banbeck.

Carcolo annuì, fosco. — Vorrei essere presente all’atterraggio. — Prese a calci il Ragno. — Avanti, alzati, non hai riposato abbastanza? Vuoi che vada a piedi?

Il Ragno piagnucolò per la stanchezza, ma si rialzò vacillando. Carcolo fece per montare, ma Givven lo trattenne, posandogli la mano sulla spalla. Carcolo si voltò, indignato: era un’impertinenza. Bast Givven disse con calma: — Stringi la sottocinghia, altrimenti cadrai sulle rocce e ti spezzerai di nuovo le ossa.

Sibilando una frase sprezzante, Carcolo rimise a posto la fibbia. Il Ragno lanciò un grido disperato. Senza badargli, Carcolo montò, e il drago si mosse a passi tremanti.

Più avanti, la Guglia di Barch si innalzava come la prua di una nave bianca, dividendo la Catena della Guardia del Nord dal Dosso di Barch. Carcolo si soffermò a studiare il paesaggio, tirandosi i baffi.

Givven taceva, discretamente. Carcolo si voltò a guardare giù per lo Skanse, in direzione del suo esercito apatico e disordinato, poi deviò sulla sinistra.

Passando vicino alla base di Monte Gethron, costeggiando il Labirinto Alto, scesero lungo un antico corso d’acqua verso l’Orlo dei Banbeck. Sebbene, necessariamente, non si fossero mossi a grande velocità, l’astronave dei Basici non si era spostata più in fretta. Stava cominciando allora a scendere nella valle: i dischi a prua e a poppa turbinavano di colori furiosi.

Carcolo grugnì rabbiosamente. — Joaz Banbeck è furbo. Non c’è anima viva. Si è rifugiato nelle sue gallerie, con i draghi e tutto. — Sporgendo le labbra, parodiò affrettatamente la voce di Joaz: — «Ervis Carcolo, mio caro amico, per l’attacco c’è una sola risposta: scavare gallerie!» E io gli ho risposto: «Sono forse un sacerdote, per vivere sottoterra? Scava pure, Joaz Banbeck, fai quel che vuoi, ma io sono un uomo all’antica: mi rifugio sotto i precipizi solo quando è necessario».

Givven scrollò leggermente le spalle.

Carcolo proseguì: — Gallerie o non gallerie, lo annienteranno. Se sarà indispensabile, faranno saltare l’intera valle. I sistemi non mancano certo, a quelli!

Givven sogghignò sardonicamente. — Anche Joaz Banbeck conosce qualche trucco… come abbiamo imparato a nostre spese.

— Lascia che catturi due dozzine di Basici, oggi — scattò Carcolo. — Poi ammetterò che è un uomo intelligente. — Si accostò al ciglio del baratro, mettendosi in piena vista dalla nave dei Basici. Givven lo guardava impassibile.

Carcolo tese il braccio. — Ah! Guarda là!

— Io no — disse Givven. — Ho troppo rispetto per le armi dei Basici.

— Puah! — sputò Carcolo. Comunque, indietreggiò un poco dal bordo del precipizio. — Ci sono dei draghi sulla Via di Kergan, nonostante tutte le chiacchiere di Joaz Banbeck a proposito delle gallerie. — Guardò lungo la valle, verso nord, per qualche istante, poi alzò le braccia, esasperato. — Joaz Banbeck non verrà qui da me. Non posso far nulla. Se non scendo nel villaggio, lo stano e lo abbatto, mi sfuggirà.

— A meno che i Basici vi catturino entrambi e vi rinchiudano nello stesso recinto — disse Givven.

— Bah! — borbottò Carcolo, e si scostò.

X

Le lastre ottiche che permettevano a Joaz Banbeck di osservare la Valle dei Banbeck in lungo e in largo venivano sfruttate per la prima volta per un uso pratico.

Il progetto gli era venuto in mente per la prima volta mentre giocherellava con una serie di vecchie lenti, e l’aveva accantonato con la stessa rapidità. Poi un giorno, mentre mercanteggiava con i sacerdoti nella caverna sotto Monte Gethron, aveva proposto loro di progettare e realizzare la parte ottica di quel sistema.

Il vecchio sacerdote cieco che conduceva le trattative per gli scambi gli aveva dato una risposta ambigua. La possibilità di tale progetto, in certe circostanze, poteva meritare attenta considerazione. Erano trascorsi tre mesi. Il progetto era stato accantonato nella mente di Joaz Banbeck. Poi il sacerdote, nella grotta degli scambi, gli aveva chiesto se intendeva ancora installare il sistema. In tal caso, poteva ritirare immediatamente gli elementi ottici.

Joaz aveva accettato le richieste per il baratto, ed era tornato alla Valle dei Banbeck con quattro pesanti casse. Aveva ordinato di scavare i cunicoli necessari, aveva fatto installare le lenti, e aveva constatato che, con lo studio oscurato, poteva vedere ogni angolo della Valle dei Banbeck.

Ora, mentre la nave dei Basici oscurava il cielo, Joaz Banbeck era nel suo studio, e seguiva la discesa della grande mole nera.

In fondo alla stanza, i tendaggi marrone si aprirono. Stringendo la stoffa tra le dita convulse c’era la menestrella, Phade. Era pallida in volto, e i suoi occhi brillavano come opali. Con voce rauca, disse: — La nave della morte. È venuta a prendere le anime!

Joaz le rivolse un’occhiata impassibile, poi si girò di nuovo verso lo schermo di vetro molato. — La nave è chiaramente visibile.

Phade gli corse accanto, l’afferrò per un braccio, lo guardò in viso. — Cerchiamo di rifugiarci nel Labirinto Alto. Non permettere che ci prendano subito!

— Nessuno ti trattiene — disse Joaz, indifferente. — Fuggi nella direzione che preferisci.

Phade lo fissò, stordita, poi girò la testa e osservò lo schermo. La grande astronave nera scendeva con sinistra lentezza, e i dischi a prua e a poppa lucevano come madreperla. Phade tornò a fissare Joaz e si umettò le labbra. — Non hai paura?

Joaz sorrise a denti stretti. — A che serve fuggire? I loro Battitori sono più svelti degli Assassini, più maligni dei Rissosi. Possono sentire la tua usta a un miglio di distanza, e trovarti nel cuore del Labirinto.

Phade rabbrividì, scossa da un orrore superstizioso, e mormorò: — Allora mi prenderanno morta. Non posso lasciarmi catturare viva.

All’improvviso, Joaz imprecò. — Guarda dove atterrano! Nel più bello dei nostri campi di bellegarde!

— Che differenza fa?

— Che differenza? Dobbiamo rinunciare a mangiare solo perché loro ci fanno visita?

Phade lo guardò sbigottita, senza capire. Lentamente si lasciò cadere in ginocchio e cominciò a compiere i gesti rituali del culto teurgico. Abbassò le mani ai fianchi, a palme in basso, le alzò lentamente fino a quando il dorso delle mani toccò le orecchie, e sporse contemporaneamente la lingua: e ripeté quelle mosse più e più volte, tenendo gli occhi fissi nel vuoto con intensità ipnotica.

Joaz ignorò quei gesti fino a quando Phade, il volto sfigurato in una maschera fantastica, cominciò a sospirare e piagnucolare. Allora le sbatté sul viso le falde della giubba. — Finiscila con questa pazzia!