— Be’, non posso certo definirmi un’analista. Inoltre nessuna ragazza vorrebbe mettersi in terapia con sua madre… e dubito persino che avrebbe accettato di farsi consigliare un nome da me.
— Ma come avrà fatto, da sola, a trovare un analista?
— Non lo so — ammise Heather. — Magari sarà stato il dottor Redmond a suggerirle qualcuno. — Lloyd Redmond era il medico di Kyle da quasi trent’anni, e seguiva anche il resto della famiglia. — Domattina lo chiamo, potrei scoprire qualcosa.
Arrivò la cena. Mangiarono in silenzio, scambiandosi solo poche parole, poi ognuno rincasò per conto proprio.
Il telefono squillò nel laboratorio di Kyle alle dieci e trenta di martedì mattina. L’identitel rivelò trattarsi di Heather che chiamava dal suo ufficio di Sydney Smith Hall, lato ovest di St. George Street, un isolato più a sud.
— Avevo ragione — esordì Heather. — Fu proprio il dottor Redmond a consigliare a Mary un’analista, parecchi mesi prima che morisse.
— E chi sarebbe?
— Una certa Lydia Gurdjieff — rispose Heather, compitando quel cognome inconsueto.
— Mai sentita nominare?
— No. Ho consultato in rete l’annuario dei professionisti, ma non è elencata.
— Voglio andarla a trovare — propose Kyle.
— No, sarà meglio che ci vada io… da sola.
Kyle aprì la bocca per obiettare, poi si rese conto che sua moglie aveva ragione. Innanzitutto lui rappresentava il nemico, dal punto di vista di quella donna, e inoltre Heather, a differenza di lui, era un’esperta psicologa.
— Quando?
— Se possibile, oggi stesso.
— Grazie — disse Kyle.
— Buongiorno, signora Gurdjieff — disse Heather, entrando nello studio dell’analista. La carta da parati azzurra che rivestiva i muri si arricciava un poco lungo le giunzioni, rivelando la vecchia tintura sottostante. — La ringrazio d’avermi ricevuto.
— Piacere mio, signora Davis… o posso chiamarla Heather?
Heather non s’era data pena di adottare alcun particolare accorgimento per dissimulare la propria identità; aveva infatti conservato il suo cognome da nubile, mentre Mary e Becky portavano il cognome di Kyle. Non v’era quindi motivo di pensare che quella Gurdjieff potesse metterle in relazione. — Heather va benissimo.
— Allora, Heather, non capita spesso che mi annullino un appuntamento, ma oggi dev’essere il suo giorno fortunato. Prego, si sieda, oppure si accomodi sul divano, se preferisce.
Heather ci pensò un istante, poi, con un lieve gesto di noncuranza, si distese sul divano. A dispetto di tutta la sua preparazione in campo psicologico non aveva mai sperimentato il divano dell’analista e quella sembrava proprio la volta buona.
— Non so neanch’io esattamente perché mi trovi qui — esordì. — Ma il fatto è che negli ultimi tempi non dormo bene.
— Capita molto più spesso di quanto non si pensi — commentò la Gurdjieff. Aveva una voce calda e gradevole, con forse un lieve accento del Newfoundland.
— E poi non ho molto appetito — continuò Heather.
La Gurdjieff annuì e prese un digimemo dalla scrivania, iniziando a scriverci con uno stilo. — E secondo lei potrebbe esserci una causa psicologica?
— All’inizio ho pensato che fosse una specie d’influenza, ma ormai va avanti da mesi.
La Gurdjieff vergò un altro appunto sul memo. Calcava troppo lo stilo, che provocava sulla lastra di vetro un rumore simile al raspio di un gessetto sulla lavagna.
— È sposata, vero?
Heather annuì. Portava ancora al dito il suo semplice anello nuziale.
— Figli?
— Due ragazzi — rispose Heather e se ne pentì all’istante. Probabilmente avrebbe fatto meglio a includere almeno una figlia. — Di sedici e diciannove.
— E non sono loro la causa del problema?
— Non credo.
— I suoi genitori sono ancora vivi?
— No — rispose Heather, non vedendo motivo di mentire su questo punto.
— Mi dispiace.
Heather chinò il capo, accettando il commento.
Andarono avanti così per un’altra mezz’ora, con Heather che rispondeva più o meno sinceramente a domande apparentemente innocue.
E alla fine l’analista sentenziò: — Un caso classico, i: effetti.
— Cioè?
— Vittima d’incesto.
— Cosa?
— Be’, come spesso accade, lei non ne conserva un ricordo cosciente. Ma tutto quello che mi ha detto induce a formulare tale diagnosi.
— È ridicolo — obiettò Heather, cercando di mantenere un tono neutro.
— Naturale che voglia negarlo — insisté la Gurdjieff. — Non mi aspetto certo che lei si rassegni subito all’idea.
— Ma io non ho ricevuto alcuna violenza.
— Mi ha detto, se non sbaglio, che suo padre è morto.
— Esatto.
— Ha pianto, al suo funerale?
— No — rispose Heather in un soffio di voce.
— È stato lui, vero?
— Non è stato nessuno.
— Ha avuto per caso un fratello di molti anni più grande? O un nonno che veniva sempre a trovarla? O magari uno zio con cui le capitava spesso di rimanere sola?
— No.
— Allora è assai probabile che sia stato suo padre.
— Non è assolutamente possibile che mio padre abbia fatto una cosa del genere — ribatté Heather, cercando di parlare con voce ferma.
La Gurdjieff sorrise mestamente. — Questo è ciò che pensano tutte, all’inizio. Ma il fatto è che lei soffre di quelli che vengono definiti disturbi da stress post traumatico. — Poi, sfiorandole una mano: — Ascolti, non c’è nulla da vergognarsi, lo tenga bene a mente. Non è avvenuto per sua scelta. Non è stata colpa sua.
Heather non replicò.
Poi, abbassando la voce, la Gurdjieff soggiunse: — È più frequente di quanto si creda. È accaduto anche a me.
— Davvero?
L’analista annuì. — Dai sei anni all’incirca, fino ai quattordici. Non ogni notte, ma spesso.
— Ma è… è terribile… Mi spiace tanto per lei.
La Gurdjieff sollevò la mano sinistra. — Non deve angustiarsi per me e neppure per se stessa. È un’esperienza dalla quale dobbiamo trarre forza.
— Ma lei come ha reagito?
— Peccato davvero che suo padre sia morto. Non potrà affrontarlo. È la cosa migliore, sa? Affrontare chi ha abusato di te. È immensamente gratificante. Non tutti ci riescono, purtroppo. Certe donne, in particolare, hanno paura di farlo, paura di finire diseredate o ripudiate dai familiari. Però quando funziona è straordinario.
— Ma guarda… — commentò Heather. — E… fra i suoi pazienti ce ne sono stati che abbiano adottato questo sistema?
— Molti.
— Qualcuno di recente?… — azzardò Heather, senza ben sapere fin dove potesse spingersi.
— Vede, a dire il vero non potrei parlare degli altri pazienti…
— Sì, certo, mi rendo conto. Ma solo in termini generici, giusto per capire meglio. Di solito che succede, in un caso normale?
— Be’, uno dei miei pazienti ha affrontato il suo violentatore proprio la settimana scorsa.
Heather sentì che il cuore cominciava a galopparle in petto. Decise di insistere, ma con molta cautela. — Ed è riuscito a trarne giovamento?
— In effetti si tratta di una donna. Sì, c’è riuscita.
— Ma lei come fa a esserne certa? Voglio dire, in che cosa è consistito il miglioramento?
— Ecco, questa donna… credo di poterle rivelare che aveva un disturbo nel comportamento alimentare. Molto comune, in circostanze del genere. Altro sintomo ricorrente è l’insonnia, come nel suo caso. Adesso è completamente guarita.
— Ma io non credo proprio di aver subito abusi. Anche quella paziente era perplessa come me?
— All’inizio sì. C’è voluto del tempo prima che l’accaduto venisse a galla. Sarà lo stesso anche per lei, vedrà. Scopriremo la verità e l’affronteremo insieme.