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In febbraio Josh era dovuto partire. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche canadese gestiva un radiotelescopio di quarantasei metri a Lake Traverse, nel parco degli Algonchìni, una vastissima zona di foreste vergini nel nord dell’Ontario. Josh era stato incaricato di trascorrere una settimana lassù, per dare una mano a sorvegliare le apparecchiature.

Poco dopo il suo arrivo, l’altro astronomo di turno all’installazione era stato colpito da un attacco di appendicite. Un’eliambulanza l’aveva quindi trasportato dall’osservatorio all’ospedale di Huntsville.

Josh era rimasto, ma poi l’aggravarsi del maltempo aveva impedito ad altri di raggiungerlo. Si era dunque trovato solo col gigantesco telescopio per una settimana, bloccato dalla neve.

Quando finalmente le strade tornarono percorribili e qualcuno da Toronto poté raggiungere l’osservatorio, Josh fu trovato morto.

Si era ucciso.

Non avendo avuto la loro relazione nulla di ufficiale, la polizia non si prese la briga di avvertire direttamente Heather. E lei venne a saperlo da un articolo del “Toronto Star”.

Diceva che Josh si era ucciso per dissapori col suo amante.

Heather era al corrente che Josh aveva un compagno. di stanza, e diverse volte le era capitato anche d’incontrarlo, quel Barry, uno studente di filosofia dalla barbetta curatissima.

Però non aveva compreso quanto stretto fosse il loro legame, né quanto lei stessa avesse contribuito a complicare la loro già difficile relazione.

No, non ci pensava spesso.

Ma senza dubbio aveva subito il colpo di quella tragedia. E forse era rimasta meno sorpresa di quanto non sarebbe stata la maggior parte delle altre madri, nello scoprire che l’animo di sua figlia doveva avere albergato ossessioni segrete e inconfessate angosce… al punto di togliersi la vita.

Se non era dunque stata un’emozione tanto grande da sconfinare nell’inconcepibile, allora lei non avrebbe mai potuto rimuovere il ricordo della morte di Mary… per quanto ardentemente potesse desiderarlo.

A distanza di qualche chilometro, sdraiato a letto nel suo appartamento da scapolo, neppure Kyle riusciva a prender sonno.

Falsi ricordi…

Ricordi rimossi…

Esistevano, nella sua vita, eventi così traumatici, talmente dolorosi che, potendo, egli avrebbe voluto cancellarli dalla propria mente?

E come no.

L’accusa di Becky.

Il suicidio di Mary.

Le due esperienze peggiori che gli fossero mai capitate.

Sì, se la rimozione fosse stata possibile, senza dubbio avrebbe rimosso quei ricordi.

A meno che… a meno che, come aveva detto Heather, persino quelli non fossero abbastanza inconcepibili da attivare il meccanismo di rimozione.

Si lambiccò, sforzandosi di rammentare altri esempi di cose che avrebbe potuto rimuovere. Pur consapevole di quanto ardua fosse l’impresa: ricordare circostanze che non avrebbe consentito a se stesso di ricordare…

Ma d’un tratto qualcosa riemerse… un fatto della sua infanzia. Una cosa che non era mai riuscito ad accettare. Una cosa che gli era costata la fede in Dio. Ecco, in momenti di tranquilla meditazione gli capitava ancora d’ipotizzare l’esistenza di un Creatore, ma sin da quando aveva quindici anni, a partire da un giorno ben preciso, non credeva più nel Dio benevolo proclamatogli dalla sua chiesa.

Quella sera i suoi genitori erano usciti dopo cena e lui aveva deciso di rimanere alzato il più possibile. Quando suo padre era a casa non gli permetteva certo di giocare col telecomando, così adesso si sfogava a cambiare canale, con la speranza di trovare qualche trasmissione un po’ spinta. Però, imbattendosi in un documentario naturalistico, si soffermò. Non si sa mai, magari poteva entrare in scena una di quelle africane con le poppe al vento.

Apparve, invece, una leonessa che faceva la posta a un branco di zebre nei pressi di uno stagno. Il fulvo mantello della belva era quasi invisibile, fra le alte erbe giallastre. C’erano centinaia di zebre, ma la predatrice era interessata solo agli animali ai margini del branco. “La leonessa cerca un capo sbandato” spiegò il commentatore. “Vuole individuare uno dei membri deboli del branco.”

La leonessa rimaneva immobile in agguato. Fra i rumori di fondo si distinguevano lo zoccolìo delle zebre sul suolo arido, il fruscio dell’erba, i richiami degli uccelli, il ronzio degli insetti. Le ombre dense e brevi rasentavano le membra degli animali come timidi fanciullini aggrappati alle gambe dei genitori.

D’improvviso la leonessa balzò innanzi, le zampe incontenibili pistoni, le fauci spalancate. Si avventò sul fianco di una zebra e vi immerse profondamente le zanne. Le altre zebre presero a fuggire al galoppo con rumor di tuono, sollevando nubi di polvere nella loro scia. Gli uccelli si alzarono in volo e presero a volteggiare schiamazzando.

Fra le strisce bianche e nere dell’animale aggredito si vedevano adesso colare striature vermiglie. La zebra* cadde in ginocchio, spinta giù dalla furia della leonessa. Il sangue s’impastò col terreno riarso formando una melma rossiccia. La belva era affamata, o quanto meno assetata, e continuando ad azzannare ferocemente la carne della vittima disvelse una massa umidiccia di muscoli e tessuto connettivo. Nel frattempo la zebra non cessava di muovere la testa e battere le palpebre.

Quella disgraziata è ancora viva, pensava Kyle. Sta spargendo il suo sangue per tutta la savana, sta per essere mangiata, ed è ancora viva.

Una zebra. Genere Equus, avrebbe sentenziato il professore di scienze. Insomma, una specie di cavallo.

D’estate, al campeggio, Kyle aveva fatto qualche passeggiata in groppa. E sapeva quanto fossero intelligenti, quanto fossero ricettivi, quanto fossero sensibili i cavalli. Una zebra non poteva essere tanto diversa. Quel povero animale doveva soffrire tremendamente, dibattersi in preda al panico, provare un terrore assoluto.

Un pensiero lo colpì. Aveva quindici anni e fu colpito come da una tonnellata di mattoni.

Perché non si trattava solo di quella zebra, ovviamente. Ma di quasi tutte le zebre e le gazzelle e le giraffe e gli gnu.

E non capitava soltanto in Africa.

Ma a tutte le vittime di predatori in ogni parte del mondo.

Gli animali non muoiono di vecchiaia. Non si spengono tranquillamente dopo una vita lunga e piacevole.

No.

Essi vengono fatti a pezzi, sbranati lentamente, dissanguati, di solito mentre sono ancora coscienti, ancora consapevoli, ancora sensibili al dolore.

La morte è, quasi senza eccezione, un avvenimento orribile, atroce.

Il nonno di Kyle se n’era andato l’anno prima. Kyle non aveva mai pensato sul serio che il fatto d’invecchiare riguardasse anche lui, ma d’improvviso gli tornò in mente la sequela di termini udita spesso intonare dai suoi genitori durante la malattia del nonno.

Cardiopatia. Osteoporosi. Cancro alla prostata. Cataratta. Demenza senile.

Durante l’intero corso della storia anche la maggioranza della gente aveva fatto morti tremende. Di solito gli esseri umani non erano vissuti abbastanza a lungo da conoscere la vecchiaia; all’evoluzione, che come gli avevano insegnato a scuola si era presa la briga di mettere a punto con tanta precisione gran parte della fisiologia umana, era mancata in pratica l’opportunità di dedicarsi alla soluzione di tali incresciosi problemi, per il semplice motivo che quasi nessuno, nelle generazioni precedenti, era vissuto abbastanza da giungere a farne esperienza.

La zebra sventrata dal leone.

Il topo inghiottito intero dal serpente.

L’insetto paralizzato che si sente mangiar vivo dalle larve innestategli dentro.

Tutti quanti senza dubbio consapevoli di quel che gli sta accadendo.