Tutti quanti torturati sino all’ultimo istante.
Niente morti veloci.
Niente morti misericordiose.
A Kyle non era rimasto che posare il telecomando. La voglia di sbirciare petti muliebri l’aveva completamente abbandonato. Infilatosi a letto, era rimasto sveglio per ore a rimuginare.
Da allora in poi, ogni volta che cercava di volgere il pensiero a Dio, gli si ripresentava immancabilmente l’immagine della zebra, del suo sangue zampillato a macchiare lo stagno.
Un ricordo che ancora, per quanto ci avesse provato, non era stato capace di rimuovere.
Heather non riusciva proprio a farsi venir sonno. Si alzò dal divano, andò all’armadio in camera da letto e tirò fuori alcuni vecchi album fotografici. Poi tornò a sedersi sul divano, ripiegò una gamba sotto di sé, scelse uno degli album e se lo spalancò in grembo.
Le foto risalivano a una quindicina d’anni prima: roba d’inizio secolo, insomma. La vecchia casa di Merton. Dio, come le mancava.
Voltò pagina. Le foto erano protette da una pellicola di acetato, tenuta ferma da un leggero strato adesivo sui fogli di supporto.
La festa per il quinto compleanno di Becky, l’ultima organizzata nella casa di Merton.
Già, quella volta che Doreen, la sorella di Heather, non si era fatta vedere, e Becky c’era rimasta così male che la zia non fosse venuta. Heather non gliel’aveva mai perdonata. Pensare che aveva sempre partecipato con tanto impegno ai compleanni dei ragazzi di Doreen, preparando i dolci, scegliendo i regali e tutto il resto. Ma già, Doreen aveva avuto troppo da fare, di certo si era tirata indietro perché le era capitata un’offerta più allettante.
Voltò pagina di nuovo e…
Ma che strano!
Altre fotografie della festa.
Ed ecco lì Doreen. Allora era venuta anche lei, dopotutto.
Heather sollevò la pellicola trasparente, poi prese la foto e lesse l’appunto che aveva scritto sul retro: “5° compleanno di Becky”. E a fugare ogni eventuale dubbio c’era la data impressa dal fotolaboratorio, esattamente due giorni dopo il compleanno.
E pensare che per quella questione erano quindici anni che portava rancore a sua sorella. Doreen doveva aver detto inizialmente che non sarebbe venuta, per poi cambiare idea all’ultimo momento. Heather aveva ricordato la prima parte e dimenticato completamente la seconda.
Ma lì c’era la foto: Doreen accovacciata accanto a Becky.
Le foto non mentono.
La memoria, invece, è un meccanismo senza dubbio imperfetto.
Heather sospirò.
Le foto servivano ovviamente a rinfrescarle la memoria, ma le rivelavano anche cose che aveva sempre ignorato, o completamente dimenticato.
Però, quanti rullini di pellicola poteva aver scattato in vita sua? Forse un duecento, e ciò significava che sparse fra album e scatole da scarpe dovevano esistere alcune migliaia d’immagini del suo passato. Senza contare, naturalmente, qualche video amatoriale e le istantanee elettroniche salvate su disco.
Poi c’erano i diari e le copie di vecchie lettere.
E vari cimeli e ricordini che riportavano alla memoria eventi da lungo tempo trascorsi.
Tutto qui. Quanto al resto, era conservato unicamente nel suo inattendibile cervello.
Richiuse l’album. Sulla copertina in vinile marroncino campeggiava impressa in grandi lettere dorate la parola RICORDI. Ma la doratura stava venendo via.
Il suo sguardo corse in fondo al corridoio. Laggiù c’era il suo computer. Quello di Kyle era installato al piano di sotto, quando lui viveva ancora lì.
Tutti e due avevano adottato precauzioni per la sicurezza dei dati. Ogni mattina, andando al lavoro, lei recava in borsetta un memowafer contenente l’ultimo backup del drive ottico di Kyle; un disco di quel genere era difficile che si guastasse, ma conservare una copia dei dati fuori casa era l’unico modo sicuro per garantirsi contro incendi e furti. Kyle, ugualmente, si portava in laboratorio un memowafer col backup di Heather.
Per conservare gli episodi più importanti della loro esistenza, tuttavia, non potevano far ricorso ad archivi né copie di sicurezza.
Le cadde lo sguardo sul complesso stereo. C’erano sopra alcune foto incorniciate. Di lei, di Kyle, di Becky, e sì, anche di Mary.
Che cos’era accaduto, in realtà?
Come sarebbe stato bello se fosse esistito un archivio dei nostri ricordi… una qualche infallibile registrazione di ogni avvenimento.
Una prova inoppugnabile, in un senso o nell’altro.
Chiuse gli occhi.
Come sarebbe stato bello.
9
Kyle aveva in vista un’eccezionale dimostrazione, di grande importanza per garantire l’ininterrotto finanziamento del suo progetto di ricerca. Vi si sarebbe dovuto dedicare con ogni sua energia e invece, in quel periodo, era continuamente preoccupato per l’accusa di Becky.
Sinora, oltre a Heather e Zack, non ne aveva parlato con nessuno, eccetto Cita. L’unica persona con cui si fosse confidato non era affatto una persona. E invece aveva bisogno di parlarne a una persona vera. Ma di chi fidarsi? Difficile scelta. Alla facoltà d’Informatica nessuno faceva al caso suo; molto meglio lasciare il luogo di lavoro fuori da quella storia, a parte le sue chiacchiere segrete con Cita. Nei mesi a venire, quel laboratorio avrebbe anche potuto rappresentare il suo unico rifugio.
Mullin Hall sorgeva a due passi dal Newman Centre, che ospitava il cappellano cattolico dell’Università. Kyle accarezzò brevemente l’idea di parlare a costui, ma non avrebbe funzionato. Dopotutto anche una tonaca è bianca e nera, proprio come il mantello di una zebra.
Poi gli venne in mente.
La persona ideale.
Kyle non lo conosceva molto bene, ma negli ultimi anni si erano incontrati in tre o quattro commissioni e di tanto in tanto avevano pranzato assieme, o per lo meno nello stesso gruppo, al Club di Facoltà.
Kyle sollevò il micro dell’ufficio e pronunziò il nome desiderato: — Elenco interno. Bentley, Stone.
Il telefono segnalò il contatto, poi una voce stridula ne scaturì. — Pronto?
— Stone? Sono Kyle Graves.
— Chi? Ah… Kyle, sì. Ciao.
— Stone, ti volevo chiedere se non avresti tempo per un goccio con me stasera.
— Uh, sì, va bene. Al Club di Facoltà?
— No, no. Da qualche parte fuori del campus.
— Ti andrebbe l’Abbeveratoio di College Street? — propose Stone. — Lo conosci?
— L’ho visto da fuori.
— Bene, allora passa dal mio ufficio alle cinque. Persaud Hall, stanza 222.
— Ci sarò.
Kyle riattaccò, chiedendosi che cosa avrebbe detto esattamente a Stone.
Heather entrò in ufficio. Non era certo un ambiente enorme, ma per fortuna le università non avevano mai assegnato cubicoli al corpo insegnante. Di solito divideva il locale con Omar Amir, anche lui professore associato, che però trascorreva tutto luglio e agosto alla villetta di famiglia nel Kawartha. Così, per lo meno durante l’estate, Heather aveva agio di pensare e lavorare in assoluta tranquillità. Oltretutto, mentre in alcuni degli uffici più recenti venivano adottati pannelli terratetto in vetro smerigliato accanto a porte sottilissime, la stanza di Heather e Omar aveva l’aspetto di uno studio privato vecchio stile, con una porta di legno massiccio che cigolava sui cardini e una normale finestra con vista a oriente sul cortile in cemento fra Sid Smith e St. George Street. C’erano persino le tende, un tempo probabilmente di un bel rosso borgogna, ma ridotte attualmente a marrone chiaro. Ottime, da chiuse, per schermarsi dal sole insistente del mattino.
Il radiomessaggio alieno del giorno innanzi campeggiava ancora sul monitor. Poiché l’intervallo fra l’inizio di un messaggio e l’inizio del messaggio successivo era di trenta ore e cinquantuno minuti, ciascun messaggio incominciava, ogni giorno, quasi sette ore più tardi rispetto a quello precedente. L’ultimo era stato ricevuto mercoledì mattina alle 4.54, ora della costa orientale; l’inizio di quello odierno era dunque previsto per le 11.45 antimeridiane. I messaggi venivano captati dai radiotelescopi di varie nazioni, a seconda di quale zona del globo terrestre fosse diretta verso Alpha Centauri all’ora della ricezione, e immediatamente si provvedeva alla loro diffusione sul Web. Esisteva inoltre un ricevitore orbitale costantemente puntato verso la sorgente dei segnali.