Kyle si lasciò andare contro la spalliera della sedia. Cita aveva ragione. Una volta tanto, quella maledetta macchina aveva proprio ragione.
Che insidioso labirinto, la mente umana! Basta una semplice accusa per scatenarla persino contro se stessa.
Esisteva effettivamente, un simile universo? Un universo in cui lui aveva potuto davvero insinuarsi dopo mezzanotte in camera di sua figlia e compiere su di lei quegli atti mostruosi?
Non qui, naturalmente. Non in questo universo. Ma in un altro… uno in cui forse non aveva ottenuto la cattedra, in cui era stato travolto dalle circostanze dell’esistenza, in cui beveva più di quanto avrebbe dovuto, in cui lui e Heather stavano ancora lottando per scongiurare lo spettro della miseria… oppure un universo in cui erano divorziati già da tempo, o lui era rimasto vedovo e la sua sessualità non aveva trovato uno sfogo normale.
Poteva esistere, un simile universo? Potevano i ricordi di Becky, sebbene falsi in questo universo, essere l’effettivo riflesso di un’altra realtà? Poteva forse Becky avere avuto accesso, tramite chissà quale aberrazione quantica, ai ricordi formatisi in un mondo parallelo, così come un elaboratore quantico estrae informazioni da altre direttrici temporali?
Oppure l’idea stessa che egli avesse potuto abusare di sua figlia era assolutamente inverosimile, inconcepibile, impossibile… come una meteora presa in testa al Polo Sud?
Kyle si alzò e fece una cosa che non aveva mai fatto prima. Mentì a Cita.
— No — disse. — No, questa volta sei completamente in errore.
Uscì dal laboratorio e le luci si spensero automaticamente dietro di lui.
Forse, pensò qualcuno, i Centauri avevano semplicemente saltalo un turno perché quel giorno lassù da loro era festa, oppure per indicare una sorta di punteggiatura entro il messaggio complessivo. In tal caso, il prossimo messaggio sarebbe giunto alle 18.36 del giorno seguente, venerdì 28 luglio.
Heather aveva trascorso gran parte delle trentuno ore d’intervallo a districarsi coi giornalisti; i messaggi alieni erano balzati improvvisamente, dal rango subalterno d’informazione specialistica, alle prime pagine dei notiziari di tutto il mondo. E adesso la CBC stava trasmettendo in diretta dall’ufficio di Heather.
I cronisti avevano provveduto ad applicare col nastro adesivo un grosso orologio digitale sopra il monitor della padrona di casa. C’erano tre telecamere: una puntata su Heather, una sull’orologio e una sullo schermo del monitor.
Sull’orologio era in corso il conto alla rovescia. Mancavano ormai due minuti al momento previsto per l’arrivo del messaggio.
— Professoressa Davis — domandò con gradevole accento giamaicano la giornalista dalla pelle scura — che cosa sta pensando? Quali sono le sue sensazioni mentre noi tutti siamo qui in attesa di un altro messaggio dalle stelle?
Pur essendo apparsa in TV altre cinque volte nel corso delle ultime trentuno ore, Heather doveva ancora trovare una risposta soddisfacente. — In realtà non lo so — disse, cercando di non fissare direttamente la telecamera come da istruzioni. — Mi sento come se avessi perduto un amico. Non ho mai capito che cosa mi stesse dicendo, però lui c’era, un giorno dopo l’altro. Potevo contare su di lui. Potevo aver fiducia in lui. Adesso l’incanto è rotto.
Mentre lo diceva, si domandò se Kyle fosse in ascolto.
— Venti secondi — annunciò la giornalista.
Heather si volse a guardare il monitor.
— Quindici.
Sollevò la mano sinistra, incrociando le dita.
— Dieci.
Non potevano essersi interrotti.
— Nove.
Non poteva finire così.
— Otto.
Non dopo tutto questo tempo.
— Sette.
Non dopo dieci anni di attesa.
— Sei.
Non senza una risposta.
— Cinque.
Non senza una chiave.
— Quattro.
Non con un mistero irrisolto.
— Tre.
Il cuore le batteva all’impazzata.
— Due.
Chiuse gli occhi e si rese conto con stupore che la sua mente stava innalzando una preghiera silenziosa.
— Uno.
Heather riaprì gli occhi, fissò lo schermo.
— Zero.
Niente. Era finita.
11
Heather suonò il campanello alla porta del laboratorio di Kyle. Non ebbe risposta. Posò il pollice sulla piastrina di riconoscimento, chiedendosi per un istante se lui non l’avesse cancellata dall’elenco. Ma la porta scivolò di lato; Heather entrò senza esitare.
— È lei, professoressa Davis?
— Oh, salve, Cita.
— È un po’ che non passava da queste parti. Piacere di rivederla.
— Grazie. Kyle non c’è?
— Si è dovuto recare all’ufficio del professor Montgomery; ha detto che sarebbe tornato presto.
— Grazie. Aspetterò, tanto… Santo cielo, e quello cos’è?
— Quello quale? — domandò Cita.
— Quel poster. È un Dalí, vero? — Lo stile era inconfondibile, ma si trattava di un’opera che non conosceva: una raffigurazione di Gesù inchiodato su una croce piuttosto inconsueta.
— Esatto — confermò Cita. — Il dottor Graves dice che è stato esposto sotto diversi nomi, ma che è meglio conosciuto come Christus Hypercubus. Cristo sull’iper-cubo.
— E un ipercubo che cos’è?
— Quell’oggetto che si vede nel dipinto. Be’, in effetti non è un vero ipercubo, ma piuttosto un ipercubo sviluppato. — Si accese uno dei monitor sul quadro comandi inclinato di Cita. —Guardi, posso mostrargliene un’altra immagine.
Ecco ciò che apparve sullo schermo:
— Sì, ma in pratica che diavolo sarebbe? — insisté Heather.
— Un ipercubo è un cubo a quattro dimensioni. Talvolta chiamato anche tesseratto.
— Cosa intendevi dire, poc’anzi, quando l’hai definito “sviluppato”?
— Be’, è una domanda davvero interessante. È stato il dottor Kyle a parlarmi degli ipercubi. Li utilizza durante le lezioni del primo anno. Dice che aiutano gli studenti a imparare a visualizzare i problemi in modo nuovo. — Il sistema ottico di Cita ruotò, cercando qualcosa nella stanza. — Vede quella scatola sullo scaffale laggiù?
Heather seguì la direzione visiva di Cita, poi annuì.
— La prenda, per favore.
Stringendosi un poco nelle spalle, Heather obbedì.
— Dunque, quello che ha in mano è un cubo — dichiarò Cita. — Adesso, con l’unghia, estragga la linguetta dalla fessura. La vede?
Heather annuì di nuovo. Fece come aveva detto Cita e la scatola incominciò ad aprirsi. Heather continuò a dispiegarla, poi la distese sulla scrivania. Risultato: sei quadrati disposti a croce, quattro dei quali in fila e due sporgenti ai lati del terzo.
— È una croce — osservò Heather.
I LED di Cita annuirono. — Esatto, ma naturalmente non deve avere per forza quella forma. Esistono undici modi sostanzialmente diversi in cui si può sviluppare un cubo, fra cui una forma a Τ e una forma a S. Be’, non quel cubo lì, che è stato tagliato per aprirsi in quel modo. Comunque, è un esempio di cubo sviluppato… cioè una figura piana, bidimensionale, che può essere ripiegata nella terza dimensione per dar luogo a un cubo. — Gli occhi di Cita tornarono a puntarsi sul poster di Dalí. — La croce del dipinto consiste di otto cubi, quattro dei quali formano il palo verticale, mentre gli altri quattro costituiscono le due coppie di braccia reciprocamente perpendicolari. Si tratta di un tesseratto sviluppato: cioè una figura tridimensionale che può essere ripiegata nella quarta dimensione per dar luogo a un ipercubo.