— Conosco un tizio ad Antropologia che dice che nel film c’è un errore… una scena dove si dovrebbero accendere certi propulsori che invece restano spenti.
Heather sorrise indulgente. — Fammi un po’ capire. Riesci a farti propinare senza batter ciglio quella storia dell’Onda Genesi capace di trasformare in poche ore uno sterile ammasso di roccia in un completo ecosistema… e poi fai storie perché i propulsori non si accendono?
— Sss! — intimò Kyle. — Ci siamo quasi.
Le porte del ponte si aprono sibilando. Entra Chekov, con un cerotto sull’orecchio. L’equipaggio lo guarda né più né meno come guarderemmo qualcuno cui di recente sia strisciato fuori dalla testa un parassita alieno. Chekov prende posto alla console tattica. Seguendo lui, l’inquadratura rivela Uhura, Sulu, Saavik, Kirk e Spock, tutti con indosso quelle uniformi di panno cremisi che li fanno sembrare altrettanti agenti della polizia canadese a cavallo. Kirk lascia la postazione centrale e si avvicina a Spock. Stanno cercando di sfuggire, attraverso la Mutara Nebula, inseguiti da Khan Noonien Singh, che si è impadronito di un’astronave della Federazione.
— Non rinuncerà mai — dice Kirk osservando il visi-schermo principale, pieno d’interferenze causate dalla nebulosa. — Mi ha seguito fin qui. Tornerà. Vorrei sapere da dove.
Spock alza lo sguardo dal rilevatore. — È intelligente, ma non ha molta esperienza. Il suo campione indica… pensieri bidimensionali. — Nel pronunziare il termine “bidimensionali” il vulcaniano solleva le sue vertiginose sopracciglia, lui e Kirk si scambiano un’occhiata eloquente, poi un gelido sorrisetto malizioso appare sul volto di Kirk. Egli torna al posto di comando e fa cenno a Sulu. — Fermare.
Sulu manovra i controlli. — Eseguito, signore.
Kirk si rivolge a Sulu: — Meno diecimila metri. — Poi a Chekov. — Pronti i siluri fotonici.
Ed ecco il punto: un’inquadratura dell’Enterprise esattamente dall’alto. Kyle aveva sempre ammirato, nei film della serie classica, il sistema dì autoilluminazione della nave, con quel fascio di luce concentrato che dalla parte centrale rilevata della sezione a disco mette in evidenza la sigla NCC-1701. Proprio sotto il vascello si scorgeva in parte il turbinante maelstrom rosaviolaceo della Mutara Nebula.
Kyle pensò per un istante che Stone avesse preso un abbaglio… c’erano senza dubbio delle luci che lampeggiavano sul bordo del disco. Tuttavia erano collocate esattamente a prua e a babordo: semplici fari di posizione. Quella di dritta non funzionava e ciò confermò a Kyle che davvero notevole era la cura dei particolari, essendo stato quel fianco della nave precedentemente danneggiato in battaglia.
Però… al diavolo, aveva ragione Stone. I quattro gruppi di propulsori per il controllo dell’assetto, chiaramente visibili sulla superficie superiore della sezione a disco, disposti ciascuno a quarantacinque gradi rispetto alla linea centrale, rimanevano irrimediabilmente spenti.
Heather, appoggiata alla parete, guardava Kyle che guardava il film. E si divertiva più di lui. Suo marito, lo sapeva, pensava che William Shatner fosse un attore straordinario. C’era qualcosa che faceva tenerezza, in quella sua totale mancanza di gusto. D’altronde, rifletté, pensa anche che io sia bellissima. Bisognerebbe andarci piano, nel rendere più esigente il metro di giudizio degli altri.
Mentre Kyle seguiva il film sino alla conclusione, Heather centellinò un bicchiere di vino bianco.
— Mi è sempre piaciuto, quel Khan — dichiarò infine con un sorriso, andandosi a sedere anche lei sul divano. — Uno che diventa completamente matto quando gli muore la moglie… proprio com’è giusto che sia.
Kyle le sorrise di rimando.
Ormai era un anno che viveva da solo, ma nessuno aveva mai parlato di una scelta definitiva. Si sarebbe dovuto trattare di appena qualche settimana: per dare a loro due un poco più di spazio, un poco più di tempo, un poco più d’intimità.
Poi, all’improvviso, anche Becky aveva deciso di andarsene.
E Heather era rimasta sola.
E in qualche modo era sembrato che non ci fosse quasi più senso a far tornare Kyle, a cercar di rimettere insieme i cocci della famiglia.
Già, la famiglia… non c’era mai stato neppure bisogno di attribuirle un nome preciso: né i Graves, né i Davis, semplicemente la famiglia.
Riscaldata dal vino, Heather scrutava Kyle. Come lo amava. La sua esperienza con Josh Huneker non aveva mai offerto risvolti altrettanto elettrizzanti. Il rapporto con Kyle era sempre stato più profondo, più importante, più soddisfacente a tutti i livelli. Sebbene lui fosse rimasto per tanti versi un ragazzino… con quella sua passione per Star Trek e un milione di altre cose che la divertiva e le inteneriva il cuore.
Tese la mano, poggiandola su quella di lui.
E lui rispose, ponendo l’altra mano su quella di lei.
Lui sorrise.
Lei sorrise.
Poi si accostarono, congiungendosi in un bacio.
Nel corso di quell’anno c’erano già stati altri baci, meccanici e sbrigativi, ma stavolta si lasciarono coinvolgere. Le loro lingue si toccarono.
Con l’attivazione dello schermo a parete, le luci si erano affievolite automaticamente. Kyle e Heather si fecero più vicini.
Proprio come ai vecchi tempi. Si baciarono ancora un poco, quindi lui prese a mordicchiarle il lobo di un orecchio e ne percorse con la lingua i contorni delicati.
Poi la sua mano riscoprì l’emozione di carezzarle il petto, palpeggiando il capezzolo fra pollice e indice attraverso il tessuto della camicia.
E lei si sentiva sempre più accaldata… erano il vino, il desiderio represso, la sera d’estate.
La mano di lui riprese a vagare, scendendo a palpitarle sul grembo, scivolando lungo la coscia verso l’inguine.
Così come tante volte in passato.
Ma d’un tratto lei s’irrigidì, i muscoli delle cosce le si contrassero.
Kyle allontanò la mano. — Cosa c’è che non va? Heather lo guardò fisso negli occhi. Se solo avesse saputo. Se solo avesse potuto essere certa.
Chinò lo sguardo.
Kyle sospirò. — Sara meglio che vada — disse.
Heather chiuse gli occhi e non lo trattenne.
12
Era uno di quei momenti di confuso dormiveglia. Heather stava sognando… e sapeva di sognare. E da buona junghiana stava cercando d’interpretare il sogno nel suo divenire.
C’era una croce, nel sogno. Cosa di per sé inconsueta, essendo Heather niente affatto incline al simbolismo religioso.
Comunque non era una croce di legno; sembrava fatta piuttosto di cristallo. Anche la forma appariva tutt’altro che funzionale… decisamente inadatta a crocifiggerci un uomo. Le braccia erano molto, molto più spesse del necessario e anche abbastanza tozze.
Mentre Heather la osservava, la croce di cristallo prese a rotare attorno all’asse maggiore, rendendo con ciò evidente che non si trattava di una vera croce. Oltre alle due protuberanze laterali, essa ne presentava infatti di identiche sia nella parte anteriore sia in quella posteriore.
11 punto di osservazione subì un avvicinamento, tanto che Heather fu in grado di scorgere delle linee di giunzione. L’oggetto era in effetti composto da otto cubi trasparenti: una colonna di quattro, più altri quattro disposti attorno alle facce del terzo cubo dal basso. L’oggetto roteava sempre più rapidamente, proiettando barbagli di luce dalla vitrea superficie.
Ecco che cos’era: lo sviluppo di un ipercubo.
E nell’approssimarglisi ancor più, Heather udì una voce.
Profonda, virile, stentorea.
Una voce possente.
La voce di Dio?
No, no… un entità superiore, ma non Dio.
Il suo schema indica pensiero tridimensionale.
Heather si svegliò in un bagno di sudore.