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Combinando concetti di fisica teorica e nozioni astratte di topologia (lo studio della forma), i matematici stanno scoprendo che lo spazio a quattro dimensioni ha proprietà matematiche completamente diverse da quelle caratterizzanti lo spazio in qualunque altra dimensione.

Andando avanti, l’articolo di Peterson si faceva sempre più astruso e Heather dovette rinunziare a comprendere dichiarazioni del tipo “solo in quattro dimensioni è possibile avere molteplicità che sono topologicamente ma non uniformemente equivalenti”.

Ma non importava. Il punto essenziale rimaneva quello: dal punto di vista matematico, una configurazione quadridimensionale è assolutamente unica. Indipendentemente da come una qualunque razza percepisca la realtà, i suoi matematici finiranno inesorabilmente per imbattersi nei problemi e nelle peculiarità di una struttura a quattro dimensioni.

Ecco quindi un terreno comune davvero speciale, un punto d’incontro per menti appartenenti a qualunque immaginabile forma di vita.

Cristo.

Anzi, qualcosa di più.

Christus Hypercubus.

Dunque, con le sue pagine Heather poteva comporre semplici cubi tridimensionali. E con quarantotto pagine si potevano costruire otto cubi in totale.

Otto cubi, proprio come nel dipinto di Dalì che Kyle teneva esposto in laboratorio.

Proprio come un ipercubo sviluppato.

Certo, Cita aveva detto che esistono diversi modi per sviluppare un normale, semplice cubo. Ma solo uno degli undici possibili sistemi produce la caratteristica forma a croce.

Figuriamoci se anche un ipercubo non poteva essere sviluppato in svariate maniere…

Però c’erano quei disegni circolari a far da guida!

Probabilmente, esisteva un solo modo per assemblare gli otto cubi in modo da ottenere il contemporaneo allineamento di tutti i cerchi.

Heather aveva già provato a comporre le immagini in forma di cubi, nella speranza di trarne schemi provvisti di senso. Ma ora cercò di risistemarle, spostandole sullo schermo del computer, sino a trovarne la giusta collocazione sui singoli cubi di un tesseratto sviluppato.

L’UDT disponeva di autorizzazioni d’uso multiple per gran parte del software utilizzato nelle varie facoltà; Kyle aveva mostrato a Heather come accedere al programma CAD che era stato adoperato per determinare in qual modo le varie tessere potessero combaciare.

Un poco le ci volle, prima di farlo funzionare a dovere, sebbene per fortuna il programma accettasse comandi vocali. Quando finalmente ebbe ridisposto i quarantotto messaggi a formare otto cubi, ordinò all’elaboratore di sistemare i cubi secondo una struttura che consentisse il corretto allineamento dei riferimenti circolari.

I solidi danzarono per qualche tempo sullo schermo, andando da ultimo a raggrupparsi nell’unica conformazione possibile.

Era un ipercrocifisso, proprio come nel dipinto di Dalí: una colonna verticale di quattro cubi, con altri quattro cubi aggettanti dalle quattro facce esterne del secondo cubo dall’alto.

Nessun dubbio, ormai: il messaggio alieno consisteva nello sviluppo di un ipercubo.

Che cosa si otterrebbe, non poté fare a meno di domandarsi Heather, se quella struttura tridimensionale la si potesse veramente ripiegare anà o katà?…

Era una tipica giornata d’agosto: torrida, afosa, caliginosa. Heather si ritrovò imperlata di sudore per il solo fatto d’essere andata a piedi fino al Laboratorio di Costruzioni Computerizzate, che faceva parte della facoltà d’Ingegneria Meccanica. Lì dentro, in pratica, non conosceva nessuno, quindi preferì arrestarsi garbatamente sulla soglia a osservare i vari automi e meccanismi assortiti sferragliami.

— Posso esserle d’aiuto? — le domandò cortesemente un bell’uomo dai capelli argentei.

— Spero proprio di sì — rispose lei sorridendo. — Sono Heather Davis, dell’istituto di Psicologia.

— È mancata una rotella a qualcuno?

— Come, scusi?

— Una battuta… chiedo venia. Capirà, una strizzacervelli che viene a trovare un ingegnere… Anche noi ci occupiamo d’ingranaggi, dopotutto.

Heather ridacchiò.

— Mi chiamo Paul Komensky — disse l’uomo. Tese la mano e Heather la strinse.

— Mi servirebbe un lavoretto da ingegneri, in effetti. Avrei bisogno di far costruire qualcosa.

— Che cosa?

— Non sono proprio sicura. Un mucchietto di pannelli prefabbricati, diciamo.

— Grandi quanto?

— Non so.

L’ingegnere si accigliò… ma Heather non avrebbe saputo dire se fosse un cipiglio per una “ochetta giuliva” oppure per una “maniaca del fai-da-te”. — Un po’ vago, non crede? — osservò Komensky.

Heather gli rivolse il più affascinante dei suoi sorrisi. Al giorno d’oggi, nelle varie scuole d’ingegneria metà degli studenti erano donne, ma Komensky doveva avere abbastanza anni sul groppone da ricordare i tempi quando gl’ingegneri erano tutti rozzi maschiacci che a volte stavano settimane senza vedere una femmina. — Mi spiace — gli disse. — Il fatto è che sto lavorando sui radiomessaggi alieni, e…

— Sapevo d’averla già vista da qualche parte! Ma sì, alla tivù, che programma era?…

Quella domanda la mise un po’ a disagio, tante erano state le trasmissioni cui aveva partecipato ultimamente… meglio sorvolare, per non passare da presuntuosa.

— Forse Newsworld? — provò a imbeccarlo.

— Eh, già, può darsi. Quindi questi pannelli hanno a che fare con gli alieni?

— Non sono sicura, ma credo di sì. Vorrei preparare una serie di formelle che rappresentino i reticoli dei messaggi alieni.

— I messaggi quanti sono?

— Duemilaottocentotrentadue… quelli non ancora decifrati, per lo meno. Sono gli unici che mi serve trasformare in pannelli.

— Un bel mucchio di roba.

— Me ne rendo conto.

— E quanto debbano venire grandi non lo sa?

— Purtroppo no.

— Di che materiale dovrebbero esser fatti?

— Due diverse sostanze. — Gli porse il digimemo. Sullo schermo apparivano due formule chimiche. — È in grado di sintetizzarle?

Lui scrutò il display. — Certo. Nessuna difficoltà. Ma è sicura che siano solide a temperatura ambiente?

Una domanda che la colse di sorpresa. Aveva letto tutta la documentazione su quelle sostanze dieci anni prima, quando erano state sintetizzate per la prima volta, ma da allora, in effetti, non ci aveva più pensato granché. — Non ne ho idea.

— Questa qui credo di sì — sentenziò lui indicando la formula in alto. — Quest’altra… be’, vedremo. Sono formule dedotte dai messaggi alieni?

Heather annuì. — Dalle prime undici pagine. Naturalmente questi composti sono stati già sintetizzati da tempo, ma nessuno ha mai compreso a che cosa servissero.

Komensky sembrava impressionato. — Interessante.

Heather annuì di nuovo. — Voglio che i bit zero siano fatti di una sostanza, e i bit uno dell’altra.

— E uno dei due dev’essere verniciato sull’altro?

— Verniciato? No, no, penso che ciascuno dei due debba venire direttamente realizzato nel suo specifico materiale.

Il volto di Komensky esprimeva perplessità. — Non mi convince. Dalla seconda formula ho idea che venga fuori un liquido, il quale però potrebbe poi asciugarsi formando uno strato solido. Vede questi atomi di ossigeno e idrogeno? Potrebbero evaporare sotto forma di acqua, e come residuo otterremmo, appunto, un solido.

— Oh… Be’, allora sì, vada per la vernice. Oltretutto mi troverei risolto un grosso problema cui non m’era riuscito di dare risposta.