Cercò di snebbiarsi le idee, di relegare in un angolo la violenta emozione della sera prima.
Un sole radioso rischiarava il pomeriggio. Socchiudendo gli occhi, s’interrogò per l’ennesima volta sugli alieni che inviavano quei messaggi. Se non altro, una luce come quella era qualcosa che gli umani dovevano avere in comune coi Centauri… nessuno, ovviamente, conosceva l’aspetto degli alieni, ma i disegnatori satirici avevano preso a raffigurarli come gli omonimi personaggi della mitologia greca. La stella Alpha Centauri A è quasi gemella del Sole terrestre: appartengono entrambi alla classe spettrale G2V, hanno tutt’e due una temperatura di 5800 gradi Kelvin… si poteva quindi ragionevolmente dedurre che sia l’una sia l’altro illuminassero i rispettivi pianeti con la medesima luce giallobianca. Certo, Alpha Centauri B, più piccola e più fredda, avrebbe potuto aggiungere una sfumatura arancione, quand’era anche lei visibile in cielo… ma negli intervalli in cui fosse stata presente solo la stella A, Centauri e umani avrebbero volto lo sguardo su paesaggi identicamente illuminati.
Heather continuò lungo la via, diretta in ufficio.
Bisogna andare avanti, pensò. Andare avanti.
Il mattino seguente, sabato 22 luglio, invece di scendere come al solito alla stazione di St. George, Kyle proseguì in sotterranea sino a Osgoode, quattro fermate dopo.
Zack Malkus, il ragazzo di Becky, faceva il commesso in una libreria di Queen Street West. Kyle non ricordava altro, del poco che Becky gli aveva detto nell’ultimo anno. Non sapeva di quale libreria si trattasse, ma non ne erano rimaste molte. Durante gli anni del liceo, Kyle andava spesso nella Queen, il sabato pomeriggio, in cerca di nuovi romanzi di fantascienza alla Bakka, di nuovi fumetti alla Silver Snail e di libri fuori catalogo nella dozzina di negozi dell’usato che a quei tempi costellavano la strada.
Ma le librerie convenzionali avevano passato un brutto periodo. Parecchie si erano trasferite in zone meno alla moda, dove gli affitti erano più modesti, oppure avevano semplicemente cessato l’attività. Attualmente, Queen Street West ospitava soprattutto caffè eleganti e localini esclusivi. Vi rimanevano non più di tre o quattro librerie, così Kyle decise di provarle tutte.
Cominciò dalla vecchia e famosa Pages, sul lato nord. Zack, a differenza di Becky, frequentava l’università, quindi era probabile che lavorasse nei fine settimana. Kyle si guardò attorno, ma non vide traccia del biondo spilungone. Si avvicinò comunque alla cassiera, una stupenda ragazza delle Indie Orientali, sovraccarica di orecchini. — Buon giorno — la salutò.
Lei gli sorrise.
— Lavora qui Zack Malkus? — domandò Kyle.
— No, ma abbiamo uno Zack Barboni.
Kyle rimase lievemente sorpreso. Ai tempi della sua infanzia, la maggior parte della gente si chiamava in modo normale: David, Robert, John, Peter… L’unico Zack di cui avesse mai sentito parlare era il maldestro Zachary Smith della vecchia serie televisiva Lost in Space. Adesso sembrava che tutti i ragazzi in circolazione portassero nomi tipo Zack, Odin, Wing…
— No, non è lui — rispose. — Grazie lo stesso.
Proseguì in direzione ovest. Lungo la via fu avvicinato da mendicanti che gli chiesero l’elemosina; ricordava che ai tempi della sua giovinezza gli accattoni erano così rari, a Toronto, da non essergli mai capitato di doverne respingere uno. Adesso in centro ne incontravi a ogni passo, sebbene i loro appelli venissero sempre formulati con impeccabile cortesia canadese. Kyle aveva perfezionato l’espressione tirinnanzi del torontoniano: mascella risoluta, labbra serrate, non incrociare mai lo sguardo di un questuante, ma concedersi un lieve ondeggiamento di capo per contrapporre un “no” a ogni richiesta; sarebbe stato da screanzati, dopotutto, ignorare completamente qualcuno che ti rivolgeva la parola.
Toronto la Buona, meditò Kyle, ripensando a un vecchio slogan pubblicitario. Sebbene al giorno d’oggi i mendicanti costituissero un gruppo misto, molti di loro erano autoctoni canadesi, cioè quelli che il padre di Kyle chiamava ancora “indiani”. Non rammentava, in effetti, quando fosse stata l’ultima volta che aveva visto un indigeno canadese in situazione diversa dall’accattonaggio, sebbene dovessero senza dubbio sopravviverne molti altri all’interno delle riserve. Parecchi anni prima, in uno dei suoi corsi, aveva anche avuto un paio di nativi, spediti lì in virtù di un ormai defunto programma statale, ma non gli veniva in mente alcun membro accademico dell’UDT… neppure, ironia della sorte, nel campo delle tradizioni popolari… che potesse definirsi canadese di origine.
Continuando, Kyle giunse da Bakka. Il negozio aveva aperto sulla Queen West nel 1972, aveva traslocato un quarto di secolo dopo, e adesso era di nuovo in zona, non lungi dall’originaria collocazione. Kyle era certo che se ne sarebbe ricordato (e che Becky non avrebbe omesso di sottolinearlo) se Zack lavorava proprio lì. Comunque…
Sul cristallo della vetrina principale stava impressa l’origine del nome: BAKKA: NOME, MITOLOGIA; NELLA LEGGENDA DEI FREMEN, COLUI CHE PIANGE PER TUTTA L’UMANITÀ.
A Bakka gli toccherà fare gli straordinari, di questi tempi, pensò Kyle.
Entrato nel negozio parlò con l’ometto barbuto alla cassa, ma anche stavolta niente Zack Malkus.
Kyle continuò a cercare. Portava una camicia sportiva Tilley e un paio di blue jeans, abbigliamento non molto diverso da quello indossato a lezione.
La libreria successiva distava quasi un isolato, sul lato sud della via. Kyle attese il tranquillo passaggio di un ronzante bus biancorosso a levitazione magnetica, frutto della recente riconversione di tutti i veicoli pubblici, poi attraversò.
Quel negozio era molto più lussuoso di Bakka; qualcuno doveva avere speso ultimamente un mucchio di soldi nel restauro del vecchio edificio di arenaria che l’ospitava, e la facciata in pietra era stata ripulita a sabbiatura; anche se ormai gran parte del traffico cittadino consisteva di libratori, molti fabbricati recavano ancora la lurida patina di decenni d’inquinamento automobilistico.
Un tintinnio di campanelle annunciò l’ingresso di Kyle. All’interno c’era una dozzina di clienti. Forse in risposta allo scampanellio, da dietro uno scaffale in legno scuro spuntò un commesso.
Era Zack.
— Si… signor Graves — balbettò.
— Salve, Zack.
— Cos’è venuto a fare qui? — Lo disse in tono astioso, come se il semplice fatto di rivolgersi a Kyle gli ripugnasse.
— Ti devo parlare.
Sdegnosamente: — Sto lavorando.
— Lo vedo. Quand’è che fai pausa?
— Non fino a mezzogiorno.
— Aspetterò — ribatté Kyle senza neppur guardare l’orologio.
— Ma…
— Zack, ti devo assolutamente parlare. Non ti chiedo altro.
Il giovane contrasse le labbra, riflettendo. Poi annuì.
Kyle attese. Di solito gli piaceva gironzolare per le librerie, in special modo quelle con veri volumi di carta, ma oggi era troppo nervoso per concedersi quello svago. Un po’ di tempo lo trascorse a sfogliare una vecchia copia del Colombo’s Canadian Quotations, leggendo quel che la gente aveva detto a proposito della vita in famiglia. Colombo sosteneva che la più famosa frase celebre canadese in assoluto fosse: “Il medium è il messaggio” di McLuhan. Probabilmente era vero, ma una frase pronunziata ancor più di frequente, seppur non di origine strettamente canadese, doveva essere: “I miei figli mi odiano”.
Alla fine aveva ancora da aspettare, quindi uscì dal negozio e s’infilò in quello accanto, una rivendita di poster. L’interno era tutto decorato a cromature e smalto nero. C’erano mucchi d’immagini naturalistiche di Robert Bateman. Un po’ di materiale del Gruppo dei Sette. Una serie di stampe di Jean-Pierre Normand. Fotoritratti di cantanti in voga. Vecchi manifesti cinematografici, da Quarto potere a La caduta dello Jedi. Centinaia di oloposter con paesaggi di terra, di mare e di cielo.