E poi una ragazza azteca.
Un aborigeno australiano prima dell’arrivo dei bianchi.
Un cacciatore Inuit nelle distese ghiacciate dell’estremo nord.
Un accattone nell’India coloniale.
Una donna impegnata in un film porno.
Un uomo al funerale del proprio gemello.
Un ragazzo sudamericano che corre dietro a un pallone.
Una donna preistorica intenta a scheggiare una punta di freccia.
Una giovane atletica di servizio in un kibbutz.
Un soldato terrorizzato in trincea, nella Prima guerra mondiale.
Un bambino costretto a lavorare in schiavitù nella Singapore del miracolo economico.
Una donna morta nel dare alla luce suo figlio nel bel mezzo della prateria americana o canadese di un secolo prima.
E cento altre vite, giusto un’occhiata per ciascuna.
Continuò a navigare, provando qui, indugiando là, traendo note dalla tastiera sconfinata dell’esperienza umana. Giovane, vecchia; maschio, femmina; nera, bianca; etero, omo; intelligente, ottusa; ricca, povera; sana, malata… una gamma completa di possibilità, cento miliardi di esistenze fra le quali scegliere.
Ogni volta che riteneva di avere trovato una traccia capace di condurla a personaggi d’importanza storica, la seguiva fino in fondo.
Vide Marilyn Monroe cantare Happy Birthday a JFK… attraverso gli occhi di Jackie.
Attraverso gli occhi di John Lennon, guardò Mark Chapman premere il grilletto. E sentì anche lei un colpo al cuore, quando il proiettile giunse a segno. Attese per verificare se al momento del trapasso qualcosa abbandonasse il corpo di Lennon… ma anche fosse, quel qualcosa le rimase inavvertibile.
Vide, attraverso la barriera curvilinea del casco spaziale, la prima impronta lasciata sul suolo lunare da Neil Armstrong. Se l’era ripassato tante di quelle volte, il suo “piccolo passo per un uomo”, che una volta arrivati al dunque lo cincischiò senza farci troppo caso.
Sebbene non spiccicasse una parola di tedesco, riuscì a scovare sia Freud sia Jung. Per fortuna conosceva abbastanza bene le trascrizioni delle lezioni tenute da Freud, nel 1909, presso la Clark University di Worcester nel Massachusetts; così non le fu difficile evocare i ricordi di quel viaggio, durante il quale il grande eretico si era espresso perlopiù in inglese.
Era assai probabile che per le università s’inaugurasse un’epoca d’inaspettata e travolgente popolarità, una volta resa pubblica la scoperta della supermente. Lei, di sicuro, si sarebbe iscritta a un corso di tedesco.
Già, e perché no aramaico? Perché accontentarsi del discorso di Gettysburg, quand’era possibile ritrovarsi in prima fila al Sermone della Montagna?
L’ebbrezza dell’incredibile reso possibile.
Mentre però appagava mille curiosità, Heather sapeva bene di stare evitando la persona con cui più desiderava entrare in contatto, timorosa di quel che avrebbe potuto trovare.
Ma il momento d’incontrare suo padre, morto due mesi prima della sua nascita, era ormai giunto.
Prima, però, le ci voleva una pausa. Uscì dalla struttura e andò a cercare un bicchiere di vino per farsi coraggio.
39
Quando Heather rientrò nello psicospazio non ci mise molto a trovare suo padre, Carl Davis.
Essendo egli scomparso nel 1974, prima dell’avvento delle videocamere amatoriali, Heather non aveva mai udito la sua voce, e le uniche immagini che le rimanevano di lui erano alcune fotografie rimirate mille volte. All’epoca della sua morte appariva già piuttosto stempiato e sfoggiava un bel paio di baffi. Portava occhiali con montatura in corno. Il volto mite, l’espressione affabile, davano l’idea di una persona per bene.
Nato nel 1939, tre settimane prima del suo trentacinquesimo compleanno era stato ucciso da un automobilista ubriaco.
Doreen, la sorella di Heather, un pochino l’aveva conosciuto e vagamente si ricordava di quell’uomo che aveva fatto parte della sua vita sino all’età di tre anni. A meno che non si trattasse di falsi ricordi… creati nel corso degli anni per mitigare l’amarezza dell’assenza.
Ma almeno Doreen l’aveva davvero guardato negli occhi, aveva ricambiato i suoi abbracci, aveva saltato sulle sue ginocchia, l’aveva ascoltato raccontare fiabe e promettere caramelle, aveva giocato insieme con lui.
A Heather, invece, il calore di quelle mani era mancato completamente. Dieci anni dopo, la mamma si era risposata con Andrew… Heather si era sempre rifiutata di chiamarlo papà, e anche se sua madre aveva cambiato il proprio cognome in Redewski, Heather aveva insistito per rimanere una Davis, testardamente fedele a un pezzo del proprio passato che non aveva mai conosciuto.
E adesso, finalmente, toccò la mente di Carl Davis, sfogliò con dita lievi le memorie di quella vita archiviata.
Sì, un brav’uomo lo era stato sul serio. Maschilista arrabbiato, sia pure, secondo i criteri attuali, ma non certo rispetto alle convinzioni degli anni Sessanta. E anche per molti altri versi, è vero, lo si sarebbe potuto definire tutt’altro che progressista: per esempio, non era mai riuscito a capire che cosa diavolo avessero da scalmanarsi tanto nel sud degli Stati Uniti. Però a sua moglie voleva un gran bene, non le era mai stato infedele, Doreen era la pupilla dei suoi occhi, e non vedeva l’ora di ritrovarsi con un altro marmocchio per casa.
Heather si ritrasse quando cominciarono a emergere i ricordi della seconda gravidanza di sua madre. Papà l’aveva voluto conoscere da vivo, non desiderava assistere alla sua morte.
Chiuse gli occhi e rimaterializzò la struttura. Premette il pulsante di arresto, uscì, si procurò un pacchetto di fazzolettini, si asciugò gli occhi, si soffiò il naso.
Un padre l’aveva avuto anche lei, dopotutto. E se fosse vissuto, le avrebbe voluto sicuramente un mondo di bene. Rimase lì a farsi accarezzare da quel pensiero rasserenante fin quando non si sentì pronta, poi rientrò nella struttura, intenzionata a percorrere un altro tratto di strada lungo il percorso esistenziale di Carl Davis.
All’inizio andò tutto come al solito. Vide i due globi, oscillò all’interno degli emisferi, si ritrovò davanti a un’ampia zona di esagoni oscuri, e poi…
E poi…
Incredibile, ma c’era qualcun altro.
Heather lo avvertì con l’intera superficie del suo corpo, lo percepì con ciascun neurone del suo cervello.
Non poteva darsi che anche Kyle fosse entrato nello psicospazio tramite la sua struttura? No di sicuro. Al momento stava tenendo lezione, e oltretutto ci avevano già provato a sintonizzarsi reciprocamente utilizzando ciascuno la propria struttura, e lei sapeva bene che sensazione desse la contemporanea presenza di Kyle nello psicospazio.
No, non si trattava di Kyle.
Eppure sentiva di non essere sola. Impossibile sbagliare.
Che qualcun altro ci fosse arrivato? Che lei e Kyle avessero davvero atteso troppo, gingillandosi in mille modi, a render pubblica la scoperta? Che in quel preciso istante un altro ricercatore stesse dimostrando l’esistenza della supermente? In tutto il mondo non erano rimasti in molti a interessarsi dei messaggi alieni. Forse era Hamasaki, che dava spettacolo davanti alle telecamere dell’NHK. O forse Thompson, che agitava la bacchetta magica sotto l’occhio insonne della BBC. O magari Castille, che faceva una passeggiatina nello psicospazio a tutto beneficio della CNN…
E invece no. Dai suoi esperimenti con Kyle sapeva che, tranne in caso di contatto volontario, le sarebbe stato impossibile rilevare altri accessi allo psicospazio.
La sensazione di un’altra presenza pareva inequivocabile… ma poteva anche darsi che se la stesse solo immaginando.
Si trattava di una struttura piezoelettrica, dopotutto. Metti che la Centaurimobile fosse in avaria… forse le avrebbe fatto sperimentare i fenomeni osservati tanti anni prima da Persinger all’Università Laurenziana. Scariche piezoelettriche provenienti dalla vernice avrebbero potuto provocarle allucinazioni. Magari di lì a poco avrebbe visto angeli o demoni o allogeni macrocefali venuti a portarla via…