Fritz Leiber
I tre tempi del destino
1
In filamenti spettrali e tremanti di verde e azzurro, simili ad aurore boreali, i colori finali della quarta sincromia di Hoderson, chiamata L’Yggdrasil, svanirono nel silenzio visivo. Ancora una volta l’antica leggenda, che precedeva perfino l’Alba della Civiltà, era stata raccontata… la leggenda dell’Albero della Vita che affondava le sue radici nel cielo e nell’inferno, e nella terra dei giganti del ghiaccio, e dei serpenti che insidiavano quelle radici mentre gli dèi combattevano per difenderle. Trasformata in colori espressivi del genio di Hoderson, interpretata dai più grandi cromorchestrali del mondo, la leggenda primitiva del mistero, del terrore e della decadenza del cosmo, delle ruote che facevano muovere altre cosmiche ruote, aveva affascinato ancora una volta i suoi spettatori.
Preso da un’eccitazione che trascendeva la dimensione umana, Thorn si piegò in avanti, posando una mano sull’erba soffice che copriva il terreno attorno al mantello che lui stesso aveva steso. La mano affusolata gli tremava. Si era reso conto, come mai prima, che la leggenda dell’Yggdrasil corrispondeva completamente all’ipotesi che lui e Clawly dovevano presentare quella sera al Consiglio Mondiale.
Le radici della realtà erano più d’una certo, e, se quell’ipotesi era giusta, in agguato si trovavano cose ben peggiori dei serpenti.
E non c’erano dèi a combatterli… solo due uomini deboli e derisi.
Thorn osservò rapidamente gli altri spettatori, disseminati sul fianco della collina. I volti dei cittadini equilibrati e sani dell’utopia apparivano crudeli e infinitamente estranei. Come maschere. Thorn rabbrividì.
Una figura oscura e curva scivolò tra lui e Clawly. Negli ultimi bagliori morenti della sincromia… l’ultimo debole lampo apparve mentre la tempesta chiamata vita si allontanava dall’universo… Thorn poté distinguere un volto maestoso e vecchissimo, seminascosto da un cappuccio nero. Quel volto decrepito gli fece ricordare una leggenda di cui aveva sentito parlare, probabilmente per scherzo… che alcuni uomini del ventesimo secolo dell’Alba della Civiltà erano riusciti a sopravvivere segretamente fino a quei giorni. Lo straniero e Clawly sembravano impegnati in una conversazione rapida e ansiosa, fatta di mormoni brevi e soffocati.
L’eccitazione di Thorn raggiunse il suo apice. Gli sembrò che la sua mente fosse diventata una membrana sottile e tesa al massimo, contro la quale, dagli abissi più remoti dell’infinito, battevano forze sconosciute. Gli sembrò di avvertire la presenza di stelle al di là delle stelle, di correnti temporali al di là del tempo.
La sincromia terminò. Ci fu un momento di completa oscurità. Poi…
Thorn avvertì quello che poteva essere descritto solo come qualcosa proveniente dalle stelle che si trovavano al di là delle stelle, da un’esistenza che si trovava al di là delle correnti temporali, che si trovavano al di là del tempo. Una ricerca cieca ma cosciente, una presenza che per un istante si abbatté su di lui e lo rese schiavo.
Non più in suo potere, la sua mano scivolò di fianco, incontrò della stoffa soffice, la frugò con infinita delicatezza, s’infilò sotto uno strato di stoffa simile, si chiuse leggermente su una cosa rotonda, dura e levigata grande come un uovo d’anatra. Poi la sua mano ritornò rapidamente indietro e si infilò la cosa nella tasca.
Una luce soffusa si sollevò dal terreno, sulla collina, senza però toccare il nero cielo artificiale che si trovava in alto. Il pubblico esplose in un caloroso applauso. Qualcuno si mise ad agitare il mantello, e il fianco della collina diventò un folle oceano di colori. Thorn batté gli occhi, senza capire. Come un sipario leggero, ma dai colori vivaci, calato improvvisamente, la scena che lo circondava nascose completamente la visione dei remoti infiniti. E la forza schiacciante, che un attimo prima aveva controllato i suoi movimenti svanì subito, veloce come era venuta, lasciandolo con la comprensione di avere appena commesso un furto irrazionale e completamente privo di motivo.
Si guardò intorno. Il vecchio vestito di nero stava già avanzando verso i bordi dell’anfiteatro, aprendosi la strada tra gruppi di spettatori entusiasti che applaudivano. Thorn tirò fuori di tasca, ma non completamente, l’oggetto che aveva rubato. Aveva un diametro di circa cinque centimetri, ed era fatto di una sconcertante sostanza grigia, e non era né metallo, né pietra, né uovo, né gemma, sebbene ricordasse lontanamente tutte queste cose.
Sarebbe stato semplice correre dietro all’uomo, e dirgli: “Avete lasciato cadere questo!” Ma non lo fece.
L’applauso divenne sporadico e debole, e risalì d’intensità quando alcuni membri della cromorchestra cominciarono a uscire dalla buca. In quella direzione ci fu un notevole movimento. Grida e risate.
Una voce sardonica che gli era familiare disse:
— Uno spettacolo notevole. Però temo che fosse troppo vicino a quello che dobbiamo fare stasera, per distendere completamente i nervi.
Thorn si accorse che Clawly lo stava studiando con aria assorta. Domandò:
— A chi stavi parlando?
Clawly esitò un istante.
— A uno psicologo, che ho consultato alcuni mesi fa, quando soffrivo d’insonnia. Dovresti ricordarlo.
Thorn fece un vago cenno d’assenso, immerso nelle sue meditazioni. Clawly lo destò da quello stato, dicendogli:
— È tardi. Ci sono alcune cose da sistemare, e non abbiamo molto tempo a disposizione.
Risalirono la collina insieme.
Soprattutto quando si trovavano insieme, avevano un aspetto che colpiva… potevano costituire un perfetto esempio delle somiglianze e delle differenze che si possono trovare tra due uomini. Certo entrambi sembravano spiritualmente simili ai figli di un’epoca più selvaggia e tormentata, piuttosto che a quelli di un’utopia sicura, soddisfatta e integrale. Clawly era piccolo di statura, vivace e rapido nei movimenti, e i suoi lineamenti erano vigili e intelligenti. Sarebbe potuto essere un Borgia o un Medici nel cuore oscuro, luminoso e tormentato dell’Alba della Civiltà, quando, secondo i concetti correnti, l’umanità era stata sull’orlo della follia totale. Aveva l’aspetto di un demonio piccolo, dai capelli rossi e dall’aria beffarda ma non crudele.
Thorn, d’altra parte, aveva l’aspetto di un santo inquieto e disordinato, attirato dal male. Il suo torace ampio e possente dava ancor più consistenza all’illusione. Anche lui sarebbe potuto appartenere a quell’oscura alba contorta della storia, nella persona di un Savonarola o di un Leonardo.
In quell’epoca i due sarebbero stati i nemici più acerrimi e crudeli, ma ora essi erano gli amici più leali e fraterni.
Si avvertiva anche che i due erano legati da qualcosa di più dell’amicizia. Uno scopo segreto che dividevano fra loro, che richiedeva il meglio delle loro qualità, e poneva sulle loro spalle una responsabilità schiacciante.
Sembravano stanchi. I lineamenti di Clawly erano troppo mobili e nervosi, gli occhi di Thorn erano cerchiati di nero; troppo, anche considerando l’effetto delle ombre destate dalla diffusa luce che sorgeva dal terreno, e che si attenuava mentre il cielo artificiale svaniva e lasciava apparire le stelle.
Raggiunsero il margine erboso dell’anfiteatro, avanzarono tra una marea di abiti disposti con somma cura e contrassegnati da un monogramma, e trovarono quelli che cercavano. Alcuni spettatori stavano già volando nell’oscurità, come grossi pipistrelli, riempiendo il silenzio della notte del costante ronzio dell’energia subtronica, l’energia di coesione dell’interno dell’atomo, la forza primitiva che si trovava alla base di ogni fenomeno elettrico, magnetico e gravitazionale, quella forza titanica, potenzialmente terrificante, capace in teoria di distruggere completamente l’intero pianeta, e che l’uomo aveva reso sua schiava.