Silenzio assoluto. Solo il ronzio delle api in giardino, tra i fiori, e un impasto di odori penetranti e dolciastri che aleggiava nell’aria. Il sole splendeva. Senza interruzione, la massa compatta degli alberi si stringeva intorno alla casa.
Clawly si avvicinò silenziosamente alla porta che si apriva nella parete color crema. Non si tolse gli abiti di volo. Aveva sollevato la cuffia durante il volo.
Sollevò la mano, e attraversò due volte il raggio invisibile che percorreva la porta. Si udì una bassa melodia musicale, che fu ripetuta subito dopo.
Non si udì alcun suono, in risposta, non si udì rumore di passi. Clawly attese.
La pace che lo circondava, il silenzio e la mancanza di ogni traccia di vita, agirono negativamente sui suoi nervi scossi. Le abitazioni nel cuore della foresta, che potevano essere raggiunte solo in volo, erano estremamente solitarie e isolate.
Poi udì un altro suono, debole e ritmico, che era stato nascosto dal ronzio delle api. Giungeva dall’interno della casa. Un respiro. Gli intervalli tra un respiro e l’altro sembravano lunghi, in maniera anormale.
Clawly esitò. Poi passò decisamente sotto il raggio.
Senza produrre rumore, percorse un corridoio oscuro, e freddo. Il respiro divenne progressivamente più forte, sebbene il ritmo non mutasse minimamente. Di fronte alla terza porta che incontrò, l’aumento d’intensità fu notevole.
Quando i suoi occhi si furono abituati alla penombra, distinse un basso divano e un corpo umano disteso su di esso, sulla schiena, con le braccia allungate. A intervalli regolari, il petto dell’uomo si sollevava.
Clawly si voltò, aprì una finestra, e si avvicinò al divano.
Sul pavimento, sotto la mano di Conjerly, c’era una busta vuota. Clawly la raccolse, l’annusò, e l’allontanò rapidamente per evitare di aspirare i residui della sostanza soporifica.
Scosse il dormiente, e dopo qualche tentativo, continuò a scuoterlo piuttosto rudemente.
Il pesante respiro di Conjerly continuò come se nulla fosse accaduto.
La prima impressione fornita dal volto di Conjerly era di assoluto vuoto, una mancanza di espressione, di sentimenti, di qualsiasi cosa. Ma un esame più attento lasciò intravedere tracce di personalità, vaghe e indistinte, come immagini intraviste sul fondo di un pozzo.
Più Clawly studiava quel volto, più si accorgeva che il sospetto che aveva avuto prima, nell’ufficio di Oktav, era fondato. Questo era il Conjerly che lui aveva conosciuto. Forse privo d’immaginazione, cocciuto e rude, un po’ troppo incline al conservatorismo, un po’ troppo teatrale in certi atteggiamenti… ma nulla di estraneo, nulla di maligno.
Il ritmo della respirazione cambiò. Il dormiente si agitò. Una mano si sollevò lentamente, e sfiorò ciecamente il petto.
Clawly osservò, immobile. Da ogni parte, il pesante silenzio estivo premeva su di lui.
Il ritmo della respirazione continuava a cambiare. Il dormiente si agitò. La mano si mosse sul colletto allentato della veste da camera.
E cambiò anche qualcos’altro. Sembrò a Clawly che il volto del Conjerly che lui conosceva stesse lentamente affondando in uno stretto pozzo senza fondo, rimpicciolendo, scomparendo del tutto, lasciando solo una maschera vuota. E poi, gli sembrò che un altro volto salisse a riempire la maschera… e in questo secondo volto si poteva leggere una nuova gamma di sentimenti, se non proprio maligni, per lo meno contorti e ostili.
Il dormiente mugolò, mormorò. Clawly si chinò su di lui, e riuscì ad afferrare delle parole. Parole con un’impronta di lontananza e di diversità infinita, parole che sembravano giungere da un altro cosmo.
— … Macchina transtemporale… invasione…, tre giorni… noi… prevenire ogni azione… finché…
Poi, dal silenzio alle sue spalle, un suono diverso… un debole scricchiolio.
Clawly si voltò di scatto. In piedi sulla porta, alto e impressionante, c’era Tempelmar.
E sul volto magro ed equino di Tempelmar stava scomparendo un’espressione nella quale erano uniti sospetto, allarme, e qualcosa di più immediato… un’espressione mortale.
Ma quando Clawly lo fissò direttamente, il volto aveva già assunto un’espressione gentile, condiscendente e un po’ perplessa: — Ebbene?
Un altro suono, alle sue spalle. Voltandosi, e facendosi indietro di qualche passo, in modo da poter tenere entrambi sotto controllo, Clawly vide che Conjerly si stava alzando, con espressione dapprima assente. Fissò Clawly. Allora anche la sua espressione cambiò, ed egli pronunciò un «Ebbene?» simile a quello di Tempelmar, anche se più irato, più indignato, e meno gentile. Era un’espressione che non apparteneva all’uomo che aveva dormito, drogato, sul divano.
Le parole che Clawly aveva appena intuito continuavano a ronzargli nelle orecchie.
Cominciò a fare le sue scuse:
— Ero venuto a parlare del programma… ho sentito il rumore di un respiro affannoso… mi sono allarmato… sono entrato…
Ma mentre parlava, mentre considerava la possibilità di un immediato attacco fisico e il modo migliore di affrontarlo, aveva già preso la sua decisione.
Doveva andare da Firemoor.
8
Tenendo le spalle curve e il capo basso, con il braccio paralizzato che gli pendeva lungo il fianco, Thorn sedeva nella sua cella oscura, come se l’intero peso della Stella Nera… fino all’altezza del gelido pinnacolo che sfiorava le nubi, là dove “loro” tenevano consiglio… gravasse su di lui. La sua mente era stanca all’inverosimile, oppressa dal mondo contorto e tirannico nel quale era caduto, dal corpo dolorante che non era il suo, del cervello che si rifiutava di pensare i suoi pensieri nel modo da lui desiderato.
Eppure, in un certo senso, la mente umana è instancabile… uno strumento costruito per decenni di pensieri e sogni ininterrotti. E così Thorn continuò a pensare, meditando su disgrazie, paure e rimpianti, cercando di aprire la porta chiusa che dava sui ricordi di quel cervello straniero, preparando piani senza speranza. E soprattutto affrontò con un’intensità da incubo il problema del ritorno al suo mondo d’origine, e gli enigmi paradossali a esso connessi. Thorn si disse che lui doveva fare ancora uso, seppure parzialmente, del cervello che si trovava nel Mondo Numero 1… per dargli un nome… proprio come Thorn II… anche qui, per dargli un nome… si serviva di quei ricordi nascosti dietro a una porta chiusa. Ogni pensiero doveva essere basato su un cervello fisico: il pensiero non poteva esistere nel nulla. E inoltre, dato che gli Universi Uno e Due… anche qui, per dare loro un nome… erano creazioni spaziotemporali indipendenti e autonome, non poteva esistere tra di loro una comune relazione spaziale… non potevano essere né lontani, né vicini tra loro. L’unico legame tra di loro sembrava costituito dalla forza mentale di cervelli quasi uguali, e questi legami non erano sottoposti alle leggi della distanza, nel senso letterale della parola. Il suo passaggio nel Mondo II era sembrato istantaneo; di conseguenza, da un punto di vista pragmatista, i due universi dovevano essere considerati in una specie di sovraimpressione. Il fatto di trovarsi in uno o nell’altro era semplicemente una questione di punti di vista.
Così vicino, eppure così lontano. Così diabolicamente simile che veniva spontaneo tentare di svegliarsi dall’incubo… e l’oscurità della sua cella aumentava questa similitudine. Doveva soltanto radunare energia mentale a sufficienza, trovare l’impeto sufficiente, per costringere l’altro Thorn a cambiare nuovamente i suoi punti di vista. Eppure, mentre si sforzava di penetrare incredibili abissi di eternità nelle tenebre, mentre cercava di affondare, di cadere, di scendere nelle oscure gallerie del suo subcosciente, mentre le trovava chiuse, impenetrabili, mentre incontrava la resistenza ferrea dell’altro Thorn, cominciò a pensare che lo sforzo fosse impossibile… cominciò perfino a domandarsi se il Mondo I non fosse stato il bel sogno di un individuo perseguitato, frustrato e senza memoria, figlio di un mondo nel quale invisibii tiranni preparavano un’incomprensibile invasione, costruivano macchine inesplicabili, e piegavano milioni di esseri umani ai loro voleri nascosti.