Fino a quando poté, rifiutò di riconoscere le rovine che sorgevano di quando in quando a interrompere la monotonia del paesaggio… vaste ossature montagnose di edifici, cose contorte e annerite, circondate da strane formazioni di roccia che sembravano colate di lava, come se la terra stessa avesse ribollito in una marea di calore intollerabile nel momento in cui quelle rovine erano state create.
Era un mondo in rovina, dal quale gli ultimi raggi di un sole al tramonto, sfiorando per un istante le cupe macerie, traevano bagliori di un giallo malato.
Ma poté evitare di riconoscere la verità solo per pochi minuti. Il sospetto che l’aveva sfiorato alla vista della gola era stato esatto. Il monte contorto e coperto di neve che si trovava davanti a lui era la tomba della Croce d’Opale. Il nero monolito che sorgeva in lontananza, a sinistra, era quanto restava della Grigia H. Quelle due torri distrutte, piegate in angoli pazzeschi, che si rivolgevano l’una verso l’altra come per cercare sostegno, erano i Gemelli Grigi. Quella massa squarciata e contorta che sorgeva dall’altra parte della gola, e che spiccava nera sullo sfondo abbagliante della neve, era la Rugginosa Ti.
Ma non poteva trattarsi del Mondo I, anche dopo molti anni, e dopo una catastrofe. Perché non esitevano tracce, neppure collinette, della Blue Lorraine, della Malva Zeta, né del Mirto Y. E neppure del Mondo II, perché le rovine della Stella Nera avrebbero dovuto costituire un’enorme massa oscura sulla sinistra, nelle immediate vicinanze.
Abbassò lo sguardo sulle sue mani.
Erano dure e callose, percorse da una rete di cicatrici, raggrinzite dal freddo, con le unghie sporche e trascurate. Eppure, erano le mani di Thorn.
Le sollevò per toccare il suo volto screpolato dalla barba lunga e ispida e incolta, e dai lunghi capelli raccolti sul collo, all’interno del cappuccio di pelo.
I suoi abiti erano una miscellanea di pelli rigide e conciate maldestramente, di parti logore e sporche di un abito di volo, di stoffe rappezzate alla meglio, come i pezzi di elastoide che costituivano le suole degli stivali.
La grossa cintura, rinforzata da pezzi di nastro da registrazione, sosteneva, oltre al coltello, due sacche che sembravano essere state ricavate dai pezzi di qualche attrezzatura industriale.
Una delle sacche conteneva una fionda, con diverse strisce di elastoide di ricambio, numerosi grossi sassi, e tre pezzi di cibo nero e dall’aspetto dubbio.
Nell’altra sacca si trovavano due piccoli contenitori di cibo concentrato, sul cui involucro si poteva leggere una data di venticinque anni prima, un tubetto di stimolante nel quale era rimasta una sola pillola, due pezzi di metallo tagliente, una pietra focaia, altri tre pezzi di elastoide, dell’altro nastro di registrazione, una rozza corda, una lente di plastica, una lima da intaglio, un piccolo proiettore di calore smantellato, che mostrava segni di rielaborazione, diversi oggetti inidentificabili, e… la grigia sfera levigata che lui aveva rubato all’Yggdrasil.
Mentre si diceva che non poteva trattarsi della stessa, le sue dita ne riconoscevano l’inconfondibile superficie levigata, la sua forma irripetibile, la sua inerzia stranamente eccessiva.
La sua mente ricordò che aveva sospettato di trovarsi di fronte a una sola molecola supergigante, una chiave… se la si sapeva usare… per aprire le porte di mondi invisibili.
Ma Thorn ebbe soltanto il tempo di immaginare che la cosa doveva essere legata alla sua mente, e non ai suoi numerosi corpi, e di chiedersi come fosse potuta sfuggire alla minuziosa perquisizione alla quale era stato sottoposto all’interno della Stella Nera. Poi la sua attenzione fu attirata da un debole guaito ansioso che si udì all’improvviso, e che cessò immediatamente.
Si voltò. Lungo il pendio della collina che lui aveva salito poco prima, un branco di lupi, o di cani, stava giungendo… perlomeno, doveva trattarsi di una trentina di animali che erano sbucati dalla vegetazione e dalle rovine. Seguivano la stessa strada sinuosa che lui aveva percorso. Nella loro corsa silenziosa c’era una strana sensazione di disciplina. Non poté esserne sicuro… la luce era insufficiente… ma gli sembrò che sul dorso di due o tre animali si trovassero dei corpicini pelosi più piccoli.
Ora sapeva per quale motivo era stato acceso il fuoco all’imboccatura della caverna.
Ma il branco si trovava tra lui e quel fuoco, così si voltò e corse sull’altopiano, verso il punto in cui aveva visto levarsi un filo di fumo.
Mentre correva, aprì il tubetto e inghiottì la pillola di stimolante, mormorando un ringraziamento a quel Thorn… decise di chiamarlo Thorn III… che aveva conservato la pillola per tanti anni, in attesa di un’emergenza altrimenti insuperabile.
Fu una corsa perfetta. I suoi piedi dai pesanti stivali evitarono ogni ostacolo, scelsero le zone di terreno più solide, con una sicurezza che fece sorgere una domanda nella mente di Thorn: Thorn III conosceva forse la strada? E quando lo stimolante cominciò a fare effetto, la sua velocità aumentò. Ma quando si voltò per un istante, vide che il branco era già arrivato in cima alla collina, e si riversava sull’altipiano. Gli animali cominciarono ad abbaiare, un suono costante, ansioso e lamentoso.
Davanti a lui, nell’oscurità crescente, apparve una luce tremolante, vaga e lontana. La osservò, ed essa cominciò a diventare più grande, lentamente. Thorn cercò di scegliere il momento esatto per scattare.
Il terreno si fece più accidentato. Fu incredibile notare l’abilità con la quale i suoi piedi evitavano gli ostacoli. La luce divenne ben visibile, e illuminò un’apertura semircicolare che si trovava dietro di essa.
L’orda ululante si avvicinò.
Udì il rumore delle zampe, proprio alle sue spalle.
Allora scattò.
Appena in tempo. Un grosso corpo peloso balzò contro di lui, con le zanne pronte a colpire la gola, e bagnò di saliva gli abiti di Thorn, mentre l’uomo balzava al di là del fuoco; poi Thorn si voltò, con il coltello stretto in pugno, e si mise in posizione, accanto all’uomo rugoso che impugnava una lancia, di fronte all’apertura della stanza semisepolta, fatta di plastoide annerito del tempo.
Poi, per qualche istante, ci fu una battaglia caotica… forme allungate di animali che si ritiravano di fronte alle fiamme… occhi rossi e zampe possenti… lancia e fionda che colpivano… ansiti, grugniti, mugolii, ululati… e, a dominare l’intera scena, e a renderla infernale, quei tre musi felini miagolanti che osservavano sul dorso di tre cani che si trovavano alla retroguardia.
Poi, come se fosse stato emanato un ordine, i cani si ritirarono all’unisono, e tutto finì improvvisamente. Senza pronunciar parola, Thorn e l’altro uomo cominciarono a riparare e a rifornire di combustibile il fuoco che era stato rovinato dal subitaneo assalto. Quando ebbero finito, l’altro individuo domandò: — Ti hanno colpito da qualche parte? Sarò pazzo, ma penso che i diavoli abbiano cominciato ad avvelenare i denti di alcuni cani.
Thorn disse: — Non credo — e cominciò a esaminare braccia e mani. L’altro annuì.
— Cosa mangi? — domandò improvvisamnte.
Thorn rispose. L’altro sembrò colpito dai concentrati. Disse:
— Potremmo andare a caccia insieme per qualche tempo, penso. Bisogna organizzarsi… lasciare uno di guardia, mentre l’altro dorme.
Parlava rapidamente, mangiandosi le parole. La sua voce doveva essere rimasta inutilizzata per molto tempo. Osservava Thorn con aria perplessa.
Thorn lo studiò. Era piccolo e zoppicava, ma barba, pelle e indumenti erano uguali a quelli di Thorn. Il volto grinzoso non era familiare. Gli occhi rossi e ansiosi non erano quelli di un individuo mentalmente normale. La presenza di Thorn sembrava agitarlo, scuoterlo in maniera incredibile. Ogni volta che chiudeva le labbra rovinate e nervose, Thorn capiva che l’uomo tratteneva una fiamma di parole.