— Un treno, stritolandola, avrebbe distrutto la struttura?
— No, la mia era una battuta. Ma sono convinto che in quel caso nessuno si sarebbe preso il disturbo di misurare il campo lambda. — Si avvicinò a Carlsen porgendogli il bicchiere. — Su, beviamo. Dobbiamo tirarci su di morale.
Carlsen prese il bicchiere senza fare obiezioni. Sebbene avesse già bevuto due whisky si sentiva assolutamente sobrio, senza nemmeno un inizio di euforia.
Fallada disse: — Ditemi una cosa. Credevate proprio che quella aliena fosse morta?
Carlsen scosse la testa. — No, non lo credevo. Se volete sapere la verità, mi rifiutavo di crederlo. — Sentì di arrossire mentre lo diceva. Di nuovo gli era costato uno sforzo dire quello che pensava.
Se Fallada rimase sorpreso, non lo dimostrò. — Era tanto affascinante?
Carlsen sperimentò di nuovo quel muro di resistenza che gli bloccava le parole. Restò in silenzio a lungo. Alla fine disse: — È difficile da spiegare.
— Direste, per esempio, che possedeva una specie di potere ipnotico?
Carlsen si irritò con se stesso nel sentirsi tanto a disagio. Disse, quasi balbettando: — Ecco… è difficile… Voglio dire che è… è strano trovare tanto difficile parlarne.
Fallada disse subito: — Ma è importante parlarne. C’è qualcosa che devo capire.
— Va bene. — Carlsen deglutì a vuoto. — Ricordate la poesia del Pifferaio Magico di Hamelin?
— Non ricordo la poesia, ma conosco la favola. E capita che mia madre sia nata proprio ad Hamelin.
— Dunque, nella poesia, il pifferaio suona il suo piffero magico, e tutti i bambini lo seguono fin dentro una montagna. Lo seguono tutti contenti. Soltanto uno resta indietro perché è zoppo, descrive quello che la musica sembrava promettere… non ricordo le parole esatte… un paese felice dove tutto era nuovo e strano. Un posto ideale, meraviglioso, dove le torte pendono dagli alberi e i fiumi sono fatti di panna montata… — Bevve un sorso di whisky sentendo il calore secco ardergli le guance e le orecchie. — Ecco, com’era.
— Potete descrivermi quello che lei sembrava promettere?
— Be’, niente. Niente in quel senso, voglio dire… Ma era la stessa sensazione… si aveva la visione di… della donna ideale, se così si può dire.
— Quello che Goethe definisce “Ewigweibliche”, l’eterno femminino? Il suo “Faust” termina dicendo: “L’eterno femminino ci trae verso l’altro”.
Carlsen annuì. Adesso sentiva una strana sensazione di sollievo. — Ecco, proprio così. Forse Goethe ha incontrato una donna come quella. È un sogno che da ragazzi si fa. Guardiamo le amiche delle nostre sorelle e pensiamo che siano dee… Ma quando siamo un po’ più grandi ci accorgiamo che non è così. La realtà distrugge l’illusione…
Fallada disse a voce bassa: — Il sogno però rimane…
— Sì, il sogno. È per questo che non posso crederci. I sogni non muoiono così.
— C’è però una cosa che dovete ricordare… — Aspettò che Carlsen alzasse lo sguardo dal bicchiere, poi aggiunse: — Quella creatura non era una donna.
Carlsen fece un gesto di protesta, e Fallada continuò in fretta: — Voglio dire che quegli esseri sono completamente diversi da tutto quello che noi consideriamo umano.
Quasi risentito, Carlsen disse: — Ma sono umanoidi!
Fallada ribatté: — No, nemmeno quello. Dimenticate che il corpo umano è una macchina ad alta precisione sviluppatasi per adattamento. Duecentocinquanta milioni di anni fa eravamo pesci. Abbiamo sviluppato braccia e gambe e polmoni per vivere sulla Terra. C’è una probabilità su un milione che esseri di un’altra galassia possano avere avuto un’evoluzione simile alla nostra.
— A meno che le condizioni del loro pianeta siano state simili a quelle della Terra — disse Carlsen.
— Non ci conterei troppo. Il rapporto patologico dei corpi dei tre esseri dimostra che il loro sistema digestivo è identico a quello degli esseri umani.
— Ma allora…
— Ecco, loro vivono assorbendo la vita di altre creature. Non hanno bisogno di cibo.
— Ammettiamo che sia così, ma… non so… Non ne sappiamo gran che, vero? Non sappiamo quasi niente su quegli esseri, niente di preciso.
Con tono paziente, come un professore che si rivolge a uno studente che non capisce, Fallada disse: — Qualche dato di fatto l’abbiamo. Per esempio, siamo quasi certi che la ragazza trovata morta lungo la ferrovia è stata uccisa da uno di loro, siano quel che siano. Sappiamo inoltre che le impronte digitali trovate sul suo collo appartengono a un uomo che si chiama Don Clapperton. — Carlsen non disse niente, e Fallada proseguì: — Abbiamo quindi due ipotesi possibili: o Clapperton ha agito obbedendo ai vampiri, o uno dei vampiri si era impossessato del suo corpo.
Era quello che Carlsen si era aspettato, e tuttavia si sentì correre un brivido per la schiena e i capelli gli si rizzarono sulla nuca. Fece per dire qualcosa, ma gli mancò la voce. Il cuore gli batteva forte.
Fallada disse in tono pacato: — Sappiamo entrambi che questo è possibile, nel qual caso è anche possibile che quegli esseri siano indistruttibili. Questo però non significa che non possano commettere errori. Per esempio…
Il richiamo del teleschermo l’interruppe. Premette il tasto di risposta. La voce della segretaria disse: — L’Alto Commissario Heseltine desidera parlavi, dottor Fallada.
— Passatemelo.
Carlsen era seduto dall’altra parte della scrivania e non poté vedere la faccia di Heseltine quando apparve sul teleschermo. La voce era secca, il tono militaresco.
— Hans, meno male che ti trovo. Ci sono novità. Abbiamo trovato l’indiziato.
— Il campione automobilistico?
— Sì. Sono appena andato a vederlo.
— È vivo?
— Sfortunatamente no. L’ho visto all’obitorio di Wandsworth. Il suo corpo è stato ripescato dal Tamigi qualche ora fa.
— Allora non hanno ancora fatto l’autopsia?
— Non ancora. Ma a me sembra un evidente caso di suicidio dopo il delitto. Dal nostro punto di vista, il caso è chiuso.
Fallada disse: — Percy, vorrei vedere il cadavere.
— Sì, certo. Hai… hai qualche motivo particolare?
— Sono pronto a scommettere che non è morto annegato.
— Perderesti. Ho visto pompargli l’acqua dai polmoni.
Fallada scosse la testa, incredulo. — Ne sei sicuro?
— Sicurissimo. Ma perché… Hans, non capisco.
— Vengo lì da te. Ci sarai ancora fra mezz’ora?
— Sì.
— Porto con me il capitano Carlsen.
Fallada chiuse la comunicazione. Si alzò, passandosi una mano sugli occhi e sospirando.
— Sapete una cosa? — disse. — Io sono ancora pronto a scommettere che era già morto prima di finire nel fiume. — Andò a guardare dalla finestra, le mani affondate nelle tasche della giacca. — Quando è arrivata la chiamata, stavo per dire che hanno sbagliato a scegliere Clapperton. Era troppo conosciuto, e quindi non poteva essere utile a loro. Hanno dovuto ucciderlo.
— Forse avete ragione — disse Carlsen.
— Può darsi — brontolò Fallada. — Andiamo, adesso. — Premette un pulsante e disse alla segretaria: — Fatemi trovare un tassi all’uscita fra cinque minuti, per favore. E dite a Norman che fra poco gli arriverà un altro cadavere da esaminare.