— No, Ernst von.
— Sì, c’è. Ernst von Geijerstam. Psicologo e filosofo. Nato a Norrkòping il due giugno millenovecentottantasette. Studiò all’Università di Lund e all’Università di Vienna… Che altro vi interessa?
— Quando è morto? — chiese Carlsen.
Armfeldt guardò il frontespizio del libro per vederne la data. — Non è morto. Questo è stato stampato l’anno scorso. Vediamo… dovrebbe avere però la bellezza di… novantatré anni.
Cercando di dominare l’entusiasmo, Carlsen domandò: — Non c’è un indirizzo recente?
— Sì… Heimskringla, Storavan, Norrland. È una zona di montagne e laghi.
Carlsen scrisse l’indirizzo sul margine del “Times”.
— C’è il numero di telefono?
— No, ma se vi serve potrei forse trovarlo.
— No, non occorre. Avete già fatto fin troppo.
Si scambiarono qualche convenevole, si misero d’accordo per incontrarsi una sera, e si salutarono. Carlsen chiamò subito Fallada. — Ho appena scoperto che von Geijerstam è ancora vivo — disse.
— Davvero? E dove abita?
— A Storavan. Cosa ne dite di mandargli un telegramma? Può darsi che il mio nome non gli torni nuovo, dopo tutta la pubblicità che mi hanno fatto…
Fallada scosse la testa. Disse lentamente: — No, sarà meglio che sia io a mettermi in contatto. Avrei già dovuto farlo molti anni fa. Da parte mia è stata tutta pigrizia colpevole, e una grossa stupidità. Lo sapevo bene che era stato il primo a riconoscere il fenomeno del vampirismo mentale! Mi date l’indirizzo completo per favore?
Carlsen passò il resto della mattinata seduto nel solario a leggere. Voleva leggere per primo il dattiloscritto di Fallada, ma si lasciò invece tentare da “Vampirismo psichico”. Era arrivato quasi a metà quando Jelka rientrò con le due bambine.
Il teleschermo suonava in continuazione: giornalisti che volevano un commento sul richiamo delle navi spaziali. Carlsen rispose a due o tre poi pregò Jelka di dire che lui non c’era.
Alle due, dopo una colazione a base di insalata mista, Carlsen stava giocando coi bambini nella piscina, quando Jelka venne a dirgli che il dottor Fallada era al teleschermo.
Carlsen rientrò e andò a parlare con lo scienziato.
Fallada gli chiese: — Che programma avete per oggi pomeriggio?
— Nessuno, tranne leggere il vostro libro.
— Verreste con me in Svezia?
Carlsen sorrise, con entusiasmo. — Certamente.
— Von Geijerstam ha acconsentito a riceverci. Se prendiamo il volo delle tre e quarantadue saremo a Karlsborg alle sei e trenta.
— Dov’è Karlsborg?
— È una cittadina sull’estremità nord del Golfo di Bothnia. Von Geijerstam ci manderà un aerotassì.
— Cosa devo portare con me?
— Solo il necessario per un paio di giorni. E il libro di von Geijerstam. Vorrei rileggerlo durante il viaggio.
L’elitassì di Carlsen arrivò all’aeroporto all’ultimo momento. Carlsen e Fallada ebbero appena il tempo di scambiare due parole prima di allacciare le cinture di sicurezza a bordo del jet di una linea aerea russa, diretto a Mosca via Stoccolma e S. Pietroburgo.
Nonostante tutto, Carlsen non aveva mai perso completamente il gusto infantile per i viaggi in aereo. Ora, mentre vedeva svanire i prati verdi dell’Inghilterra meridionale, sostituiti dalla distesa argentea del mare, provò un’eccitazione nuova, come se stesse cominciando un’avventura appassionante.
Fallada chiese: — Siete mai stato nel nord della Svezia?
— Non più su di Stoccolma. E voi?
— Ci sono stato per preparare la mia tesi sul fenomeno dei suicidi in quel paese. Ho passato molte settimane nel nord. La gente è cupa e riservata ma il paesaggio è stupendo.
Una hostess arrivò con i cocktail, e tutti e due accettarono un martini. Era un po’ presto per bere, ma Carlsen si sentiva come in vacanza. Chiese a Fallada: — Avete parlato personalmente con von Geijerstam?
— Sì. Una conversazione di un quarto d’ora. È un simpaticissimo vecchio. Quando gli ho parlato dei miei esperimenti si è appassionato come un ragazzo.
— Che cosa gli avete detto degli alieni?
— Niente. Non mi è sembrato prudente parlarne per teleschermo. Gli ho detto semplicemente che sto affrontando il più bizzarro e complesso caso che mi sia mai capitato. Mi ha subito invitato ad andare da lui per raccontargli tutti i particolari. Dev’essere alquanto ricco. Si è offerto di pagarmi le spese di viaggio! Naturalmente gli ho detto che saranno a carico dell’Istituto. A proposito, l’Istituto rimborserà anche le vostre spese. Siete qui infatti in forma ufficiale, come mio assistente.
Carlsen rise. — Cercherò di non deludere la vostra fiducia.
Cambiarono aereo a Stoccolma, passando su un apparecchio più piccolo, delle linee svedesi. Fallada tornò a immergersi nella lettura di “Vampirismo psichico”. Carlsen guardava scorrere in basso la campagna di pini, e infine la tundra chiazzata di neve. Il sole d’aprile era sbiadito, come se i suoi raggi filtrassero attraverso uno strato di ghiaccio.
Il servizio di bordo offrì pesce con biscotti salati, e vodka. Fallada mangiò distrattamente, senza staccare gli occhi dal libro. Leggeva in fretta ma con grande concentrazione. Nelle due ore e mezzo da quando avevano lasciato Londra, aveva letto quasi tre quarti del libro di von Geijerstam.
L’aereo si abbassò tra una fitta distesa di nuvole e planò su isole parzialmente coperte di neve. L’aeroporto di Karlsborg sembrava assurdamente piccolo. C’era solo una torre di controllo, e un piccolo campo d’atterraggio circondato da capanne di tronchi. Sbarcando dall’aereo, Carlsen venne colto di sorpresa dal freddo secco dall’aria.
Il pilota dell’aerotassì andò loro incontro. Non sembrava affatto uno scandinavo. I capelli neri e la faccia tonda ricordavano un esquimese. L’uomo prese i bagagli, e li guidò verso un elicottero a sei posti in attesa su un campo che fiancheggiava l’aeroporto. Pochi minuti dopo sorvolavano a bassa quota prima una campagna coperta di neve e poi una distesa d’acqua.
Carlsen scoprì che il pilota parlava un po’ di norvegese. Era un lappone. Quando Carlsen gli chiese quanto fosse grande Storavan, il pilota lo guardò sorpreso e poi disse: — Circa dieci chilometri.
— Allora è una città molto grande.
— Non è una città, è un lago.
Non disse altro. Il paesaggio cambiò un’altra volta: ora stavano sorvolando montagne coperte di foreste. Di tanto in tanto si vedeva di sfuggita una renna. Fallada continuava la sua lettura.
Finalmente richiuse il libro. — Interessante, ma assolutamente pazzesco.
— Volete dire privo di logica?
— No, non questo. Ma von Geijerstam è convinto che i vampiri siano spiriti maligni.
Carlsen sorrise. — E non è così?
— Avete visto la murena attaccare il polipo. Era uno spirito maligno?
— Ma se questi alieni possono vivere fuori del corpo, non si potrebbe definirli spiriti?
— Non nel senso di von Geijerstam. Lui parla di fantasmi e di demoni.
Carlsen guardò le foreste che scorrevano a una trentina di metri sotto di loro. In un paese come quello non era difficile credere ai fantasmi e ai demoni. Si vedevano piccoli laghi scuri, in cui si rifletteva il cielo trasformandoli in lastre di vetro azzurro. Una cascata, precipitando da una scarpata granitica, sollevava nell’aria una nuvola di vapore bianco. Carlsen udiva il rombo della cascata sopra il rumore dell’aereo. A occidente il cielo stava passando dall’oro al rosso. Era un paesaggio irreale, da favola.
Un quarto d’ora più tardi il pilota indicò davanti a sé.
— Heimskringla — disse.
Videro un lago che si snodava fra le montagne a perdita d’occhio. Più a sud c’era un altro lago le cui acque luccicavano fra gli alberi. Sulla destra si vedeva una cittadina. Carlsen pensò che fosse Heimskringla, ma si rese conto subito che stavano sorpassandola.