Chiese al pilota: — “Var ä Heimskringla?”
Il pilota indicò nuovamente. — “Där” — rispose.
E allora Carlsen vide un’isola in mezzo al lago. Fra i pini si intravedeva un tetto. A mano a mano che si abbassavano si riusciva a distinguere la facciata della casa, grigia, con torrette che la rendevano simile a un castello. Il retro dava sul lago. Davanti c’era un giardino, con sentieri tortuosi che si perdevano fra gli alberi. In una radura sul margine del lago sorgeva una cappella fatta di tronchi.
L’elicottero si posò leggermente sulla ghiaia davanti alla casa. Mentre le eliche rallentavano e poi si fermavano, un uomo uscì dalla casa e andò verso l’aerotassì. Lo seguivano tre ragazze.
— Un simpatico comitato di ricevimento — disse Fallada.
L’uomo che veniva loro incontro era alto e snello, e camminava con passo elastico e sicuro. Fallada disse: — Non può certo essere il conte. È troppo giovane.
Smontati dall’elicottero vennero investiti da un vento freddo che sapeva di neve. L’uomo tese la mano. — Molto onorato di avervi miei ospiti. Sono Ernst von Geijerstam. Siete stati di una cortesia squisita ad affrontare questo viaggio per venire a trovare un povero vecchio.
Carlsen si chiese se stesse scherzando. Anche se i baffi erano grigi e la bella faccia era segnata da rughe, l’uomo non dimostrava più di sessant’anni.
L’effetto giovanile era aumentato da una tenuta perfetta: giacca nera, pantaloni a righe sottili, cravatta bianca a farfalla. Il conte von Geijerstam parlava un inglese perfetto, senza traccia di accento.
Carlsen e Fallada si presentarono. Von Geijerstam si girò a indicare le tre ragazze. — E queste sono tre delle mie allieve: Selma Bengtsson, Anneleise Freytag, Louise Curel.
La signorina Bengtsson, una bionda alta, trattenne la mano di Carlsen un attimo più del necessario. Abituato a riconoscere un certo scintillio nello sguardo degli estranei, Carlsen intuì quello che la bionda avrebbe detto. Selma, infatti, disse: — Vi ho visto in televisione. Voi siete il Comandante della…
— Della “Hermes”, sì — completò Carlsen.
Von Geijerstam disse: — E siete qui in veste di assistente del dottor Fallada. — Lo disse come un dato di fatto, senza ironia.
— È quello che risulterà, quando chiederò il rimborso delle spese — disse Fallada.
— Capisco. — Il conte rivolse poi qualche parola in lettone al pilota. L’uomo salutò e risalì sull’elicottero.
— Gli ho detto di tornare domani pomeriggio, a meno che, naturalmente, decidiate di restare più a lungo… Adesso volete vedere il lago, prima di entrare in casa?
Un servitore in livrea stava già portando dentro i bagagli.
Carlsen disse: — Questo posto è stupendo.
— Stupendo, sì, ma troppo freddo per un vecchio col sangue indebolito dall’età. Andiamo da questa parte? — Li precedette lungo un sentiero coperto di muschio, verso la riva del lago. Il motore dell’elitassì fece aderire le gonne alle gambe delle ragazze. Il sole al tramonto tingeva il lago di rosso.
Mentre Fallada camminava di fianco al conte, Carlsen disse a Selma Bengtsson: — Il conte è molto più giovane di quanto mi aspettavo.
La ragazza disse: — È naturale. Noi lo manteniamo giovane.
Lui la guardò, sorpreso, e tutte e tre le ragazze si misero a ridere. Si fermarono sulla riva ghiaiosa del lago, a guardare le foreste di pini e abeti che incoronavano la sponda opposta. Il sole metteva bagliori rossastri sulle cime degli alberi. Sembravano bagliori d’incendio. Più in alto, il cielo era azzurro cupo.
Von Geijerstam indicò la cappella. — Quella è molto più antica della casa — disse. — Al tempo di Gustavus Vasa c’era un monastero, su quest’isola. La casa è stata costruita sulle fondamenta di quel monastero, fra il millecinquecentonovanta e il novantacinque.
Fallada chiese: — Perché avete scelto di venire ad abitare così a nord?
— A Norrköping si dice che nel Norrland querce, nobili e gamberi non attecchiscono. — Rise. — E da quand’ero bambino che desideravo venire a vivere qui. Questa casa l’ho trovata circa quarant’anni fa, quando sono venuto qui a fare ricerche sul conte Magnus. La sua tomba è dietro la cappella.
— È quel conte Magnus che pare sia stato l’amante della regina Cristina? — domandò Carlsen.
— No, quello era lo zio. Quello di cui parlo ereditò il suo titolo, per quanto fosse solo un nipote.
Camminavano lungo la riva del lago, e la ghiaia scricchiolava sotto i loro passi.
— Quando sono stato qui, ho scoperto che la casa era disabitata da cinquant’anni. Mi hanno detto che era troppo grande e quindi troppo costoso mantenerla, ma la vera ragione era che la gente di Avaviken aveva ancora un sacro terrore del conte. Qui si diceva che fosse un vampiro.
— Era morto da poco?
— No. È morto nella battaglia di Poltava, nel millesettecentonove. Il suo cadavere era stato portato qui, e la sua bara è ancora nel piccolo mausoleo là dietro.
— E il cadavere?
— Nel millesettecentonovanta, il proprietario di questa casa gli conficcò un punteruolo di legno nel cuore, e fece bruciare il corpo su un rogo. Pare che fosse ancora in un ottimo stato di conservazione… — Erano arrivati intanto a un centinaio di metri dalla cappella. — Volete dare un’occhiata al mausoleo?
La ragazza francese, Louise, disse: — Io ho freddo!
— Allora rimandiamo la visita a domattina.
Attraversarono il giardino passando accanto a un laghetto ornamentale. Sulla superficie brillava un sottile strato di ghiaccio. — Qui i frati allevavano le trote — disse il conte.
Carlsen chiese: — Ma voi credete davvero che il conte Magnus fosse un vampiro… nel senso che date voi a questo termine?
Il conte sorrise. — Perché, c’è forse un altro senso? — Fece strada agli ospiti su una scalinata di logori gradini di pietra, ed entrarono nel vasto atrio. — Ma per rispondere alla vostra domanda, sì. E ora credo che vorrete riposare un momento nelle vostre camere. O preferite bere prima qualcosa?
Fallada disse subito: — Prima, bere.
— Bene. Allora andiamo in biblioteca.
Dalla finestra della biblioteca si vedeva il disco rosso del sole sospeso sulla cima delle montagne. Nel camino era acceso il fuoco, e le fiamme si riflettevano sulle molle e l’attizzatoio di rame, e sul dorso degli antichi volumi rilegati in pelle. La ragazza tedesca, Anneleise, fece scorrere il carrello sul grande tappeto. Con le sue guance rosate e le dita grassocce faceva pensare alla cameriera di una birreria. Versò nei bicchieri grappa svedese. Nessuno aveva chiesto se avessero preferenze.
Von Geijerstam disse: — Brindiamo al vostro arrivo, signori. È un onore avere ospiti tanto famosi.
Anche le ragazze bevvero. Carlsen disse: — Se la domanda non è indiscreta… posso chiedere che cosa studiano queste vostre affascinanti allieve?
Il conte sorrise. — Perché non lo chiedete a loro?
Louise Curel, bruna, snella, occhi castani, disse: — Impariamo a guarire i malati.
Carlsen alzò il bicchiere. — Sono certo che i vostri pazienti saranno felicissimi di avervi per infermiere.
La ragazza scosse la testa. — No, non stiamo studiando da infermiere — disse.
— Dottoresse?
— Ecco, pressappoco.
— Vi sentite stanchi? — chiese il conte. Sorpreso dalla domanda inaspettata, Carlsen rispose: — No, per niente.
— Nemmeno un po’ affaticato dal viaggio?
— Forse un po’ affaticato…
Von Geijerstam sorrise alle ragazze. — Volete dare una dimostrazione?
Le ragazze lo guardarono e fecero segno di sì con la testa.