— Sì. È un posto da favola. Come un’immensa cattedrale con gigantesche colonne alte centinaia di metri. E c’è una parete tutta dipinta.
— Che genere di dipinti?
Già, che genere di dipinti? Come avrebbe potuto descriverli? Non era arte astratta. Rappresentavano qualcosa, ma che cosa? Si rivide bambino, sdraiato in un bosco, in mezzo a un fiorire di campanule azzurre che affondavano i lunghi steli biancastri nel terreno muschioso. Quei dipinti forse rappresentavano una foresta tropicale con una vegetazione bizzarra, o una foresta sul fondo del mare, fitta di cespugli di alghe e di corallo. I colori erano l’azzurro, il verde, il bianco e l’argento. I disegni avevano una complessità affascinante. Carlsen era convinto che si trattava di un lavoro di grande valore artistico.
Altri raggi di luce forarono il buio. Craigie, Ives e Murchison gli fluttuarono accanto con movimenti da nuotatori subacquei. Murchison, nel passare, lo risucchiò con sé per un paio di metri.
— Che ne pensi, capitano? Secondo te erano giganti?
Carlsen scosse la testa, poi si ricordò che Murchison non poteva vedere il gesto a causa del casco. — Per il momento non possiamo azzardare ipotesi — disse. E aggiunse: — Cerchiamo di stare vicini. Vorrei vedere cosa c’è da quella parte… — Mise in funzione la telecamera e si mosse.
A destra, fra le colonne, gli parve d’intravedere un’enorme scalinata. Continuò a filmare e intanto commentava al microfono quello che vedeva per far partecipare all’esplorazione i compagni rimasti sulla “Hermes”. Parlando, si rendeva conto che le sue parole non riuscivano a dare un’idea precisa della sconfinata costruzione.
Quattrocento metri più avanti incontrarono l’imbocco di un ampio corridoio che portava verso il centro dell’astronave. Il soffitto era a volta come in un edificio medioevale. Lì dentro tutto era alieno e insieme bizzarramente familiare. Rivolgendosi a Craigie, il Comandante disse: — Se fossimo stati noi terrestri a costruire questa astronave, le avremmo dato un aspetto meccanico: colonne quadrate e bulloni. Non so chi l’abbia costruita ma è certo che avevano il gusto del bello.
In alto, molto in alto, sulla parete di sinistra c’era una grata circolare che ricordava una finestra a mosaico. Carlsen fluttuò in quella direzione. Da vicino, vide che la grata aveva uno scopo pratico. Era alta trenta metri e aveva lo spessore di circa un metro e mezzo. I fori della grata erano larghi vari metri. Carlsen s’infilò in uno dei passaggi e diresse il raggio della torcia verso il basso. La telecamera intanto riprendeva tutto automaticamente. Carlsen guardò e rimase senza fiato. Sotto di sé vedeva un paesaggio di sogno. Infinite scalinate emergevano dall’oscurità per perdersi in altra oscurità nei meandri dell’astronave. C’erano passaggi aerei, e gallerie le cui volte facevano pensare ad ali di rondini. E oltre, ancora scalinate, e gallerie, e passaggi.
Quando udì la voce di Craigie chiedere: — Tutto bene? — Carlsen si rese conto che da parecchi minuti non parlava. Si sentiva sbalordito e travolto da quell’immensità che lo metteva a disagio. Gli sembrava di essere dentro a un incubo.
— Sì, tutto bene — rispose — ma non riesco a descrivere quello che vedo. Dovrete vedere coi vostri occhi. — Si diede una leggera spinta in avanti, con la massima cautela.
Ives chiese: — Ma quale scopo potevano avere?
— Non so se avevano uno scopo.
— Cosa?
— Intendo uno scopo pratico. Forse è come un quadro o una sinfonia: vuole solo suscitare emozioni. O forse è una specie di mappa.
— Che cosa? — La voce di Dabrowsky suonò incredula.
— Una mappa… della mente. Ma bisogna vedere per capire.
— Nessuna traccia della cabina di comando o della sala macchine?
— No, ma se l’astronave funzionava a reazione, dovrebbero essere in coda.
Adesso si stava librando sopra una scalinata, che da lontano poteva anche far pensare a una scala di sicurezza, ma da vicino Carlsen si accorse che il metallo aveva lo spessore d’un metro, che i gradini erano alti più di un metro, che erano larghissimi e dello stesso materiale color argento opaco del pavimento. Non c’erano ringhiere. Carlsen salì verso la sommità della scalinata fino a una galleria sostenuta da pilastri. Un passaggio aereo, anch’esso senza ringhiera, faceva da ponte su un baratro largo forse ottocento metri.
Dal basso Craigie chiese: — Riesci a vedere quella luce? — e indicò.
Carlsen disse: — Spegnete tutte le lampade. — Si trovarono subito immersi nel buio che li rinserrò come in una tomba. Poi, a mano a mano che la vista si adattava all’oscurità, Carlsen si rese conto che Craigie aveva ragione. C’era un chiarore in un punto, verso il centro dell’astronave, una specie di riflesso verdognolo. Guardò il suo contatore Geiger: segnava un tasso leggermente più altro del solito ma molto sotto il livello di pericolo. Disse a Dabrowsky: — Vedo un debole chiarore. Vado a vedere di cosa si tratta.
Era una tentazione prendere come punto d’appoggio la scalinata e da lì lanciarsi in avanti per superare il baratro in volo veloce. Ma dieci anni d’esperienza gli avevano insegnato a dominare gli impulsi. Seguendo il passaggio aereo come guida si lasciò calare lentamente verso il chiarore. Intanto teneva d’occhio il Geiger. Lo strumento segnò l’aumento di qualche grado mentre lui si avvicinava alla luce, ma sempre sotto il livello di pericolo, e poi la tuta spaziale l’avrebbe protetto.
Il bagliore era più lontano di quanto gli era sembrato. Gli altri l’avevano seguito, e adesso i quattro uomini passavano fluttuando davanti a gallerie che sembravano realizzate da un pazzo architetto del Rinascimento, e a rampe di scale che sembrava non avessero né principio né fine. C’erano altre enormi colonne, che lì terminavano a mezz’aria, come se il soffitto fosse crollato.
Quando Carlsen ne sfiorò una, notò che erano coperte di una polvere biancastra, simile a polvere di zolfo o di licopodio. Ne grattò un poco e la mise in un sacchetto per campioni.
Mezz’ora più tardi il bagliore era decisamente più luminoso. Carlsen guardò l’orologio, e con sorpresa si accorse che era quasi la una. Si rese conto allora di aver fame. Avevano spento le torce, e ora procedevano lasciandosi guidare dalla vaga luminosità verdognola. La luce adesso sembrava provenire direttamente dal basso.
La voce di Dabrowsky arrivò loro dalla “Hermes”. — Comandante, abbiamo ricevuto un messaggio dalla base lunare. Zelensky mi ha detto di riferiti che ha visto tua moglie Jelka e i bambini in televisione.
In qualsiasi altro momento la notizia gli avrebbe fatto piacere. Adesso tutto gli appariva stranamente remoto, non tanto nello spazio quanto… come se appartenesse a una esistenza precedente, ecco. Dabrowsky stava ancora parlando. — Zelensky dice che ci sono circa quattro miliardi di persone davanti ai teleschermi in attesa di notizie. Posso trasmettere un primo rapporto?
Carlsen rispose: — No. aspettiamo ancora. Stiamo per arrivare a quella luce. Vediamo prima di che si tratta.
Adesso vedeva chiaramente che la luce sgorgava da una specie di enorme pozzo che si apriva nel pavimento sottostante, e veniva su come il getto di una fontana. Quella luce dalla colorazione verdazzurra gli faceva pensare ai prati sotto la luna. Colto da un improvviso senso di euforia si diede una forte spinta verso il basso. Ives l’ammonì: — Ehi, capo, andateci piano! — Lui si sentiva come una rondine che plana verso terra. Gli orli del baratro erano a circa trecento metri sotto di lui. Riusciva ora a distinguere un buco rettangolare che visto dall’alto sembrava l’imbocco di una valle coperta di nuvole fra montagne a strapiombo. Il contatore Geiger superava ora il livello di pericolo, ma le loro tute li avrebbero protetti, ancora per un certo tempo.