— Esattamente. Come spiegate quel dilagare di vampirismo che inondò l’Europa all’inizio del diciottesimo secolo? Dieci anni prima i vampiri erano quasi sconosciuti. E poi, tutto d’un tratto, cominciano a circolare storie di creature che tornano dall’al-di-là e bevono sangue umano. Nel millesettecentotrenta ci fu una specie di epidemia di vampirismo dalla Grecia al Mar Baltico… ce ne sono tramandate centinaia di relazioni. Il primo libro sul vampirismo fu scritto soltanto dieci anni dopo, dunque non si può imputare quel fatto alla suggestione causata dalla troppo fervida immaginazione degli scrittori.
— Ma non potrebbe essere stato un caso di isterismo o di autosuggestione collettiva?
— Sì, potrebbe essere. Ma che cosa diede il via a questi fenomeni collettivi?
Arrivò la seconda portata: bistecche di renna e di alce, tagliate rotonde, con salsa di finocchio e panna acida. La carne fu servita con un forte vino rosso, bulgaro, freddo. La conversazione si spostò su argomenti di interesse generale: le ragazze si erano evidentemente annoiate delle storie di vampiri. Volevano che Carlsen parlasse di quello che aveva visto nel relitto spaziale.
Von Geijerstam interruppe solo una volta, quando Carlsen menzionò le alte colonne di materiale simile al vetro, che contenevano i bizzarri animali simili a seppie o a polipi.
— Cosa avete pensato nel vederli? Per quale ragione credete che fossero lì?
— Non saprei… Pensai che fossero un allevamento che gli extraterrestri si fossero portati con sé… come cibo…
La signorina Freytag disse: — I polipi mi fanno orrore.
Lo disse con tale veemenza che tutti la guardarono.
Fallada le chiese. — Ne avete mai visto uno?
La ragazza arrossì. — No — rispose.
Carlsen si chiese perché mai von Geijerstam facesse un sorrisetto.
Passarono nella biblioteca a bere il caffè. Il calore del fuoco fece sbadigliare Carlsen. Il conte chiese subito: — Preferite ritirarvi subito nelle vostre stanze?
Carlsen scosse la testa, sorridendo a disagio.
— Oh, no. La cena eccellente mi ha messo un po’ di sonnolenza, ma voglio sentire il seguito della storia del Conte Magnus.
— Vi piacerebbe vedere il suo laboratorio?
Selma Bengtsson disse, meravigliata: — A quest’ora? È ormai notte!
In tono di indulgenza, von Geijerstam le disse: — Mia cara, era di notte che gli alchimisti si dedicavano al loro lavoro.
— Mi piacerebbe molto — disse Carlsen.
— Allora sarà meglio che vi mettiate i cappotti, fa freddo lassù. — Il conte si rivolse alle ragazze: — Volete venire anche voi?
Tutte e tre scossero la testa. Selma disse: — Quel posto non riesco a sopportarlo neanche di giorno.
Fallada chiese: — Credete che le attività del Conte Magnus potrebbero interessarmi?
— Ne sono certo — rispose von Geijerstam, prendendo una grossa chiave da un cassetto. — Dobbiamo uscire di casa, per andarci. Una volta ci si poteva arrivare da una porta in fondo all’atrio, ma il proprietario che mi ha preceduto l’ha fatta murare.
Fece strada fin sui gradini d’ingresso. Era una bella notte di luna, e il lago sembrava percorso da un sentiero argentato. Carlsen si sentì rinvigorito dall’aria frizzante. Von Geijerstam li guidò lungo il sentiero tortuoso verso l’ala nord del castello.
Fallada chiese: — Perché l’ex proprietario ha fatto murare il passaggio? Aveva paura dei fantasmi?
— No, non dei fantasmi… Posso dirlo anche se non l’ho mai conosciuto. La casa è rimasta vuota per cinquant’anni, prima che la comprassi io.
Infilò la chiave nella serratura del portone e girò la maniglia. Si udì un lieve cigolio di metallo arrugginito. L’aria all’interno odorava di muffa e pareva più fredda che all’aperto. Carlsen si strinse meglio la sciarpa intorno al collo e rialzò il bavero del cappotto. Alla loro sinistra, la porta che una volta immetteva in un corridoio del castello era stata sbarrata con liste di ferro.
— Dall’altra parte è murata — disse Von Geijerstam.
— Questo edifico è stato costruito insieme al castello? — chiese Fallada.
— Sì. Perché?
— Perché ho notato che i gradini non sono affatto consumati dall’uso.
— Un’osservazione che ho fatto anch’io — disse il conte. — Forse sono sempre stati usati poco.
Anche qui, come nel castello, le pareti erano coperte di pannelli di legno di pino. Von Geijerstam salì per primo le scale, Fallada e Carlsen lo seguirono. Tre rampe di gradini. Su ogni pianerottolo il conte si fermò a mostrare i ritratti appesi alle pareti.
— Questi sono opera di Gonzales Coques, il pittore spagnolo. Da giovane, il Conte Magnus fu mandato in missione diplomatica ad Anversa, dove Coques stava lavorando al ritratto del governatore olandese. Magnus chiese a Coques di fargli i ritratti dei grandi alchimisti. Questo è Albertus Magnus. E questo, Cornelio Agrippa. Ed ecco Basil Valentinus, frate benedettino oltre che alchimista. Notate qualcosa di curioso in questi ritratti?
Carlsen osservò attentamente gli antichi dipinti a olio, poi scosse la testa. — Non saprei — disse. — Forse questo: il pittore ha dato a tutti un portamento nobile, maestoso.
Fallada approvò con un cenno. — Sembrano ritratti di santi — disse.
— Magnus aveva circa venticinque anni quando li ordinò a Coques. A mio parere, questi quadri rivelano che a quel tempo era dotato di nobili ideali. Eppure, solo dieci anni più tardi faceva massacrare i contadini di Västergötland e si preparava a vendere l’anima al diavolo.
— Come mai?
Il conte si strinse nelle spalle. — Appunto, come mai? Credo di essere arrivato a una conclusione, ma ci vorrebbe troppo per spiegarlo.
Li precedette sull’ultima rampa di scale. Dalla finestra di vetri piombati si vedeva il lago illuminato dalla luna.
La porta davanti a cui si fermarono era appesantita da strisce di metallo e da borchie. Lo stipite di destra mostrava segni di scassinatura. Era scheggiato, e c’erano le tacche lasciate da un’accetta.
Von Geijerstam disse: — Probabilmente questa stanza è stata sigillata dopo la morte del Conte Magnus, e forse la chiave è stata gettata via. Qualcuno, di una generazione successiva, l’ha forzata. — Spinse il battente e la porta si aprì.
La stanza era molto più grande di quanto si erano aspettati. Nell’aria stagnava un curioso odore sgradevole. Il conte girò un interruttore, ma la luce non si accese. — È strano — disse il conte — qui dentro le lampadine durano pochissimo.
Carlsen disse in tono scherzoso: — Forse la luce elettrica non va a genio al Conte Magnus?
— Oppure c’è qualcosa che non va nell’impianto. — Così dicendo von Geijerstam accese due lampade a olio posate su un tavolo d’angolo.
Carlsen se ne ricordò improvvisamente: era l’odore di un laboratorio dove per qualche ragione si sezionano cadaveri.
Alla luce delle lampade a olio videro una grossa stufa di mattoni e una specie di tenda da campo, nera. Carlsen la toccò e sentì che la tenda era fatta di seta, la seta più pesante che avesse mai visto.
Von Geijerstam spiegò: — Questa era una specie di camera oscura. Certe operazioni di alchimia devono essere fatte nell’oscurità totale.
Sugli scaffali c’erano bottiglie di vetro e recipienti di varie forme e misure. C’era anche un piccolo alligatore impagliato, e un mostricciattolo con la testa d’uccello, il corpo di gatto e la coda di lucertola. Carlsen si avvicinò per vederlo meglio, ma non riuscì a distinguere alcuna traccia di congiunzione. In un angolo c’era un apparecchio strampalato, di metallo, con vari tubi che ne uscivano e un pesante coperchio di terracotta.
Von Geijerstam prese un volume rilegato in pelle, dagli angoli consunti, e lo mise, aperto, sul banco di lavoro.
— Questo è il diario di alchimia del Conte Magnus. Pare che avesse il talento di un vero scienziato. All’inizio tutti i suoi esperimenti furono rivolti a produrre un liquido chiamato “alkaherst” e che aveva le proprietà di ridurre qualsiasi materia al suo stato primitivo. Questo fu il suo primo passo in alchimia. Una volta ridotta la materia allo stato primitivo, il passo successivo sarebbe stato quello di sigillarla in un recipiente e di metterla nell’“athanor”, ovvero in quella fornace. Magnus passò quasi un anno nei tentativi di trasformare in “alkaherst” sangue umano e urina.