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Sfogliò il volume più avanti. La calligrafia era angolosa, disordinata e a svolazzi, ma i disegni che accompagnavano lo scritto, schizzi di apparecchi d’analisi chimica, alambicchi, e altro, erano fatti con la massima cura e precisione.

Von Geijerstam richiuse il volume.

Mentre lo rimetteva a posto riprese a parlare. — Il dieci gennaio del milleseicentoottantatré, Magnus si convinse d’essere riuscito a ottenere l’“alkaherst” da urina di bambini e cremore di tartaro. Il volume successivo fu iniziato due mesi più tardi perché lui aveva bisogno della rugiada primaverile per la sua materia primeva. Annotò di avere speso anche duecento fiorini d’oro per acquistare veleno di cobra importato dall’Egitto.

Disgustato, Fallada esclamò: — Non c’è da meravigliarsi se alla fine è impazzito!

— Eppure, leggendo questi diari lo si direbbe in pieno possesso delle sue facoltà mentali. Dice di aver salvato la vita alla moglie del fattore, durante un parto, e di aver curato un suo pastore che soffriva di gotta, servendosi di un miscuglio di “alkaherst” e di olio allo zolfo. Sentite la conclusione: “Il pastore riuscì ad arrampicarsi fino in cima all’albero vicino alla fontana”. — Sfogliò qualche pagina, poi si fermò a indicare. — Ma ora, guardate qui… che cosa notate? — disse.

Carlsen scosse la testa. Fallada disse: — Niente, tranne il fatto che la scrittura sembra peggiorata.

— Esatto. Era disperato. Una volta un esperto grafologo mi disse che questa è la calligrafia di un uomo che medita il suicidio. Sentite: “Or n’est il fleur, homme, femme, beauté, que la mort à sa fin ne le chace”. È in francese dell’epoca. Dice: “Non esiste fiore, uomo, donna, bellezza, che la morte alla fine non cancelli”. Questa e altre riflessioni simili indicano che era ossessionato dal pensiero della morte.

Fallada chiese: — Perché ogni tanto scriveva in francese?

— Lui era francese. La Corte svedese del millesettecento pullulava di nobili francesi. E ora guardate.

Prese un altro diario, rilegato in pelle nera.

— Qui scrisse la data in codice, ma io l’ho decifrata: maggio milleseicentonovantuno, un mese dopo la sua espulsione dalla Corte. Dice: “Colui che volesse bere il sangue dei suoi nemici e ottenere fedeli servitori dovrebbe andare alla città di Chorazin, e colà rendere omaggio al Principe dell’Aria”. Poi non scrisse più niente fino al novembre successivo. Saltò sei mesi, insomma. E guardate adesso la calligrafia.

— Ma non sembra neppure quella della stessa persona — disse Carlsen.

La calligrafia infatti aveva ora caratteristiche completamente diverse: era chiara, più minuta e allo stesso tempo più decisa.

— Ma è sempre la sua — riprese il conte. — Ci sono altri documenti firmati da lui, con questa stessa calligrafia. Magnus di Skane… è il suo luogo di nascita. E la calligrafia cambia di nuovo, più avanti. — Sfogliò qualche altra pagina. Carlsen riconobbe la calligrafia di prima, appuntita e un po’ disordinata. — Il grafologo dice che è un chiaro sdoppiamento di personalità. Fa ancora esperimenti di alchimia, ma ora li annota servendosi di un codice… Ah, ecco quello che cercavo… — Il conte era arrivato quasi alla fine del diario. In mezzo a una pagina bianca c’era il disegno di un polipo.

Carlsen e Fallada si chinarono per osservarlo meglio. Il disegno non aveva la precisione meticolosa di quelli visti in precedenza. Le linee erano incerte.

Fallada osservò: — Qui c’è un’inesattezza: ha disegnato un’unica fila di ventose. E gli ha dato una specie di faccia umana… — Guardò Carlsen — Quei polipi della “Stranger” avevano qualcosa in comune con questi?

— No — rispose Carlsen corrugando la fronte. — Sono certo che non avevano affatto fisionomia umana, come questo.

Von Geijerstam chiuse il libro e lo rimise sullo scaffale da dove l’aveva preso. — Andiamo — disse. — Voglio mostrarvi altre cose. — Spense le due lampade a olio, e li precedette sul pianerottolo. Carlsen provò un gran sollievo a uscire da quella stanza. Quel vago odore di muffa e di chissà che altro cominciava a dargli la nausea. Appena furono all’aperto respirò profondamente la frizzante aria notturna.

Von Geijerstam svoltò a sinistra e li guidò lungo il sentiero, poi attraverso il prato, fino al laghetto artificiale e oltre. La luna rendeva l’erba grigio argentea.

— Dove stiamo andando?

— Al mausoleo.

Il buio fra gli alberi era totale. Poi il sentiero sboccò davanti alla porta della cappella. Era costruita interamente di tronchi d’albero, a forma di una A. Sembrava più grande di quando l’avevano vista la prima volta, dall’aereo.

Il conte fece girare un anello di ferro, e la porta si aprì all’interno. Accese la luce. La cappella era molto gradevole. Il soffitto era coperto d’affreschi che rappresentavano cherubini e angeli, e c’erano tre alti candelabri circolari, di ottone. C’era un organo verniciato in rosso, giallo e azzurro, con canne argentate. Il pulpito faceva pensare alle casette di pan di zucchero delle favole, con il tetto dipinto, e delle statuette che evidentemente rappresentavano vari santi.

Von Geijerstam li condusse lungo il lato di destra, oltre il pulpito, fino a una porta di legno massiccio che terminava ad arco. La aprì. La stanza in cui entrarono odorava di pietra fredda.

Il conte sollevò il coperchio di una cassapanca, e prese una lampada con un lungo filo. Collegò il filo a una presa vicino alla soglia. — Non c’è luce elettrica nel mausoleo — disse. — Quando fecero l’impianto nella cappella, all’inizio del duemila, gli operai non vollero oltrepassare questa porta.

La lampada illuminò una stanza di forma ottagonale, a volta. C’erano varie tombe di pietra e sarcofagi lungo i lati. Al centro della stanza troneggiavano tre sarcofagi di rame. Due avevano un crocifisso sul coperchio. Su quello del terzo c’era un bassorilievo che rappresentava un uomo in uniforme militare.

— Questa è la tomba del Conte Magnus — disse von Geijerstam indicando l’effigie sul coperchio. E aggiunse: — Pare che la faccia sia stata ricavata da una maschera mortuaria. Guardate la ferita sulla fronte… e qui… — Sollevò la lampada portatile per mostrare le incisioni sui lati del sarcofago. Alcune erano scene militari. Poi si vedeva una città con tetti a spirale. E sull’ultimo lato, vicino ai piedi, c’era un polipo nero, con faccia umana, che stava trascinando un uomo verso un’apertura fra le rocce. La faccia dell’uomo non era visibile, ma si notava chiaramente che indossava una corazza.

Von Geijerstam disse: — Questa scena è sempre stata un mistero per tutti. I polipi erano praticamente sconosciuti in Europa, in quell’epoca.

Rimasero a osservare l’incisione in silenzio. Faceva un gran freddo. Carlsen si strinse nel cappotto e affondò le mani nelle tasche. Non era il freddo secco che aveva sentito fuori: lì sembrava soffocante.

Fallada disse: — Molto curioso… — La sua voce era priva di inflessioni. — Devo dire che questo posto è alquanto sgradevole.

— Perché?

— Sembra che manchi l’aria.

Von Geijerstam guardò Carlsen con sguardo interrogativo.

— E voi, come vi sentite?

Carlsen stava per rispondere “bene” per forza d’abitudine, ma si trattenne. Aveva capito che la domanda del conte aveva un motivo preciso. — Leggermente stordito, mi sembra.