Lei rimase ai piedi del letto a guardarlo. — Vorrei farle una domanda. — I suoi modi erano del tutto naturali, senza sottintesi di natura sessuale. Si protese in avanti e lo guardò negli occhi. — Lo sapete di essere un vampiro? — chiese.
— Cosa? — La guardò cercando di capire se aveva parlato seriamente.
— Credete che stia scherzando?
— No, non credo che stiate scherzando — disse lui scuotendo la testa — ma credo che vi sbagliate.
Con una certa impazienza lei disse: — Sentite, sono in questa casa da quasi un anno. So benissimo cosa sia dare un po’ d’energia ogni giorno, e posso dirvi con certezza che voi avete preso energia da me.
— Non metto in dubbio quello che dite, ma non riesco a crederlo.
La ragazza si sedette sulla sedia di fianco al letto. — L’hanno sentito anche le altre. Ne abbiamo parlato questa sera. Erano così stanche che sono andate subito a letto. Io invece ho deciso di parlarvi.
— Sì, ma… tutte e tre mi avete dato un po’ d’energia oggi.
— Verissimo. E avrebbe dovuto bastarvi, fino a domani. Invece, dopo nemmeno un’ora, quando eravate seduto vicino a me a tavola, ho sentito che mi prendevate altra energia.
— Io non mi sento affatto pieno di energia. Anzi, mi sento esausto. Siete sicura di non sbagliarvi?
La ragazza si strinse nelle spalle. — C’è un modo semplice per scoprirlo. Distendetevi e chiudete gli occhi.
— D’accordo. — Carlsen si allungò sul letto appoggiando la testa sul cuscino, con una gran voglia di dormire subito. Sentì che lei gli sbottonava la giacca del pigiama. Poi le mani della ragazza si posarono sulla parte superiore del suo petto. Lui si irrigidì, ebbe la fugace sensazione di camminare sotto un getto di acqua fredda.
Rimase sdraiato, con gli occhi chiusi, ascoltando il brontolio che gli saliva dallo stomaco. La tensione svanì e lui si trovò a sprofondare dolcemente verso il sonno. L’impressione durò forse mezzo minuto. Poi si rese conto di sentirsi meno stanco. Un calore piacevole gli percorreva il corpo. Disse con voce assonnata: — Mi state dando energia.
— Sì, sono io a darvela.
Fino a quel momento lui era rimasto completamente passivo, come un bambino allattato al seno. Ora registrava un cambiamento, gli pareva d’essere totalmente sveglio, conscio di una strana fame violenta. La sentì dire: — Adesso siete voi a prenderla. — La voce della ragazza era stranamente debole.
Carlsen aprì gli occhi e la guardò. Vide che era pallidissima. Le disse: — Togliete le mani.
Mentre lo diceva, capì che Selma non avrebbe ascoltato. Era conscio che da lui emanava qualcosa che la tratteneva. Era anche consapevole che la ragazza opponeva scarsa resistenza. Ora lei non aveva alcun desiderio di sottrarsi. Nel suo atteggiamento c’era una componente di paura che lui avvertiva attraverso il tocco delle dita. Curiosamente, paragonò quella sensazione all’odore del petrolio. Era anche conscio di un suo dualismo: una parte di lui osservava quello che stava succedendo, senza parteciparvi; un’altra parte era desiderio puro, che procedeva sicuro e sciolto come un campione di sci acquatico scivola sulle onde.
Alzò le braccia, afferrò Selma per i polsi e si staccò dal petto le mani della ragazza. Lei si afflosciò in avanti e lui sentì il calore della sua pelle attraverso la seta leggera del vestito. Allora spinse indietro le coperte, e se la tirò accanto. Selma rimase distesa con le labbra semiaperte, le palpebre abbassate. La tentazione di chinarsi su quelle labbra era irresistibile. Però sapeva che la porta era rimasta aperta e che Fallada poteva entrare a dirgli buonanotte prima di andare nella sua stanza. Si alzò e andò a chiudere la porta a chiave. Poi spense la luce. Dalla finestra entrava il riflesso chiaro della luna, e bastò quello a trarre dall’ombra la figura della ragazza stesa sul letto. Anche voltandole le spalle non cancellò il desiderio di sdraiarsi su di lei. Si sedette sull’orlo del letto e le sollevò il vestito fino alla vita. Lei si girò su un fianco, come per permettergli di arrivare facilmente ai bottoni che si allacciavano sulla schiena. Carlsen, che di solito era maldestro coi bottoni, si trovò a sbottonare quelli con gesti sicuri. Le slacciò i ganci del reggiseno con un solo movimento, e glielo sfilò insieme col vestito. Le restavano solo le mutandine nere. Gliele tolse. Mentre si sdraiava su di lei vide con l’angolo dell’occhio la faccia di Jelka che lo guardava dalla fotografia. Gli sembrò un’estranea.
Lasciò cadere la giacca del pigiama sul pavimento e si chinò a cercare la bocca di Selma. Appena le sue labbra toccarono quelle della ragazza provò una sensazione che gli diede le vertigini. L’energia fluiva da lei in ondate di dolcezza, trasmettendo fremiti di gioia nella sua circolazione sanguigna. Quando la penetrò, la ragazza emise un gemito. Il calore che si irradiava da lei aveva gli stessi effetti dell’alcool, ma era più squisito di qualsiasi cosa lui avesse mai bevuto. In quel momento si rese conto che non stavano facendo l’amore da soli. C’era una terza persona: la ragazza dell’astronave alla deriva. C’era il mare fra loro, eppure era lì nel letto e si dava a lui. Anche le sue labbra erano socchiuse, e l’aliena stava suggendo l’energia che scorreva attraverso Carlsen. Selma Bengtsson ignorava la presenza dell’altra; lei era conscia unicamente della sua resa totale. Carlsen pensò: “Si tratta di questo, dunque?”
Il primo impeto si placò. Lui continuò a premerle le labbra sulle labbra, per timore che i suoi gemiti potessero essere uditi. L’estasi aveva travolto Selma, e Carlsen intuì che era arrivata al limite, al confine con il dolore.
Ma era anche conscio del desiderio dell’altra donna. Anche se la sua necessità più urgente era stata placata, l’aliena voleva di più. Giaceva sotto di lui, il corpo convulso, furente perché Selma era appagata. Ci fu un breve, intenso conflitto, ma Carlsen rifiutò di ubbidirle. Lei lo incitava a prendere ancora, ancora un po’. Selma giaceva di fianco a lui, sprofondata in un sonno pesante dovuto all’esaurimento; sarebbe stato facile assorbire altra energia da lei. Ma Carlsen sapeva d’aver preso già molto, d’aver assorbito quasi tutte le sue riserve di energie vitali, e ne era spaventato. In circostanze normali la ragazza le avrebbe recuperate in fretta, ma per il momento quella sua debolezza la rendeva estremamente vulnerabile. Qualsiasi sforzo improvviso, qualsiasi crisi imprevista, avrebbe gettato Selma in un limbo di paura e di depressione.
Nella mente di Carlsen la sollecitazione dell’altra era come un mormorio convincente: “Non voglio che tu la uccida. Prendile solo un altro po’ di energia”. Poiché lui rifiutava, l’altra riuscì appena a dominare la collera. Era come cercare di strappare la bottiglia a un alcolizzato. Carlsen era inoltre consapevole di un elemento nuovo del suo rapporto con quella donna.
Nel Laboratorio dell’Istituto Ricerche Spaziali lei aveva cercato d’esercitare su di lui tutte le sue seduzioni, cercando d’attirarlo con una irresistibile femminilità. Adesso Carlsen si rendeva conto della durezza e dell’egoismo nascosto sotto una maschera di dolcezza. Per dimostrare che non voleva per niente ubbidirle, voltò le spalle a Selma, pur restandole disteso vicino.
La luce della luna illuminava la fotografia di Jelka e dei bambini, e quella vista lo inondò di tenerezza. Provò lo stesso sentimento di protettiva tenerezza per Selma. Il vampiro avrebbe voluto che lui la svuotasse di tutta la sua forza vitale, fin giù ai subliminali livelli molecolari, uccidendola, e Carlsen sapeva che un uomo meno forte di lui le avrebbe ceduto. Al vampiro non sarebbe importato niente se lui fosse poi stato accusato d’omicidio. O se, dopo, la sua vita non sarebbe più servita a niente. Non che il vampiro volesse perdere Carlsen, ma la sua bramosia sopraffaceva ogni altra cosa.
Carlsen provò un impeto di disprezzo rabbioso, e immediatamente capì che l’altra l’aveva sentito. Subito il vampiro si fece conciliante. Certo, certo, lui aveva ragione… Certo, lei era troppo avida… Il disappunto si consumò in una collera sorda poi svanì, oltre tutti i limiti della sua comprensione. Per un attimo Carlsen ebbe la visione di uno spaventoso abisso di frustrazioni, di brame insoddisfatte che si erano trascinate per millenni. E insieme capì perché lei “doveva” essere un vampiro. Un criminale comune può pentirsi, e riprendere la strada dell’amore e della comprensione umana. Ma quelle creature avevano troppo di cui pentirsi: ci sarebbe voluta un’eternità.