D’un tratto Carlsen sentì che una mano di Selma gli sfiorava una coscia, e che attraverso quella mano lui stava ricevendo energia. Il vampiro, di nuovo attento, la beveva come un gatto lappa ghiottamente la panna. E capì improvvisamente che l’aliena era più pericolosa di quanto avesse pensato, e che se fosse diventata ostile avrebbe potuto distruggerlo. Mentre l’attenzione del vampiro era distratta, lui chiuse la propria mente. Si voltò verso Selma e le fece scorrere carezzevolmente una mano su tutto il corpo, permettendo che un lieve flusso di energia passasse dalla ragazza a lui. Selma si mosse e sospirò. Le sue labbra erano una tentazione, ma lui non cedette. Si lasciò andare al richiamo pesante del sonno, allungò un braccio a rialzare le coperte, poi prese Selma fra le braccia e cominciò a trasmetterle un po’ della propria energia. Il vampiro perse ogni interesse. Le riusciva incomprensibile che qualcuno cedesse la sua forza vitale.
Con la parte più profonda e più inconscia della sua mente, Selma capì che cosa lui stesse facendo. Si riscosse, socchiùse gli occhi, biascicò: — Ti amo.
Lui la strinse a sé e la sentì risprofondare nel sonno. Nello stesso momento si rese conto che il vampiro se n’era andato.
La luce della luna si era spostata su un tavolino sormontato da uno specchio. Dalla finestra veniva lo sciacquio leggero delle onde. Restò disteso, immobile, a fissare il soffitto. Adesso aveva capito finalmente che cosa stava succedendo, che cosa era già successo, e si spaventò della propria mancanza di prontezza, della capacità di ignorare i messaggi del subconscio. Per giorni il vampiro si era servito di lui, l’aveva usato per succhiare energia da Jelka e dai bambini. La sua inconscia resistenza le aveva reso il compito difficile. Ma quando le tre ragazze gli avevano posto le mani sulle spalle, quel pomeriggio, il vampiro s’era subito ravvivato, succhiando l’energia man mano che le ragazze gliela fornivano. Loro si erano accorte che qualcosa non andava e ne erano rimaste perplesse: era come versare tè in una tazza e vedere che la tazza rimaneva vuota. E allo stesso tempo si erano sentite attirate da Carlsen. Anche le altre due avrebbero fatto volentieri quello che Selma aveva fatto, pur sapendo, come lei, che Carlsen era un vampiro d’energia, e che le attirava infondendo in loro il desiderio di arrendersi. Se avesse voluto chiamarle, adesso, servendosi di quei suoi poteri appena scoperti, loro sarebbero venute subito a offrirglisi.
Carlsen sentì uno stimolo di desiderio, ma lo soppresse: il vampiro era attratto dal desiderio sessuale come uno squalo dal sangue.
Si svegliò che stava albeggiando. Selma, china su di lui, gli sfiorava la bocca con le labbra. La ragazza aveva recuperato la sua energia anche se non totalmente, e adesso voleva che lui la riprendesse.
Fu invaso da un senso di assurdità. Selma risvegliava in lui la stessa tenerezza che di solito lui provava per sua moglie e per i loro figli. Lo colpì improvvisamente l’idea che il corpo della ragazza era quello di Jelka! Entrambe erano incarnazioni del principio femminile che esulava da loro e che si affacciava dal corpo di tutte le donne del mondo come da altrettante finestre.
Le accarezzò una spalla dicendole: — Sarebbe meglio che tu tornassi nella tua stanza prima che gli altri si sveglino. È già l’alba.
— Preferirei restare qui — disse lei, e lo ribaciò.
Lui scosse la testa.
Selma chiese: — Quando torni a Londra?
— Oggi.
— Allora facciamo l’amore ancora una volta!
— No. Distenditi.
Lei riappoggiò la testa sul cuscino. Carlsen cominciò ad accarezzarla delicatamente, prima sulla spalla, poi sul seno, giù fino alle ginocchia. E nell’accarezzarla lasciava che la sua energia fluisse in lei. Selma sospirò e chiuse gli occhi come un bambino soddisfatto, e il suo respiro diventò più profondo. Lui cominciò allora a baciarla. Una sensazione di dolce felicità si diffuse nella ragazza e si comunicò a lui. Poi Carlsen la sentì cedere al sonno.
Restò sdraiato accanto a lei, indebolito ma soddisfatto. Non le aveva preso niente, le aveva invece restituito la forza vitale che prima le aveva preso. Per lo meno non era ancora un vampiro.
Qualcuno bussò alla porta, e la maniglia girò. Si mise a sedere di scatto, chiedendo: — Chi è? — Una voce femminile parlò di caffè. — Lasciate lì, grazie — disse lui.
Selma chiese, assonnata: — Che ore sono?
— Le otto meno un quarto — rispose.
La ragazza balzò giù dal letto. — Santo cielo, devo andare!
Quando lei sparì nella stanza da bagno, Carlsen aprì la porta per prendere il caffè. Mise il vassoio sul comodino e tornò a letto. Fuori, il lago scintillava sotto la luce del primo sole. Carlsen bevve il caffè a occhi chiusi, concentrato nelle sue sensazioni. Si sentiva stanco, ma non era più quello strano sfinimento che lo tormentava da quando era tornato sulla Terra.
Selma uscì dal bagno, completamente vestita, bella e in perfetto ordine come se si fosse appena preparata per andare a cena. Si chinò su di lui e lo baciò.
— Ti spiace dare un’occhiata in corridoio per vedere se c’è qualcuno? — gli disse.
Carlsen andò a guardare. Il corridoio era deserto. Lei si strinse per un attimo a lui, poi sgusciò fuori. Carlsen richiuse la porta senza fare rumore. Provava un senso di sollievo nel ritrovarsi solo.
Aveva appena finito di vestirsi quando bussarono di nuovo. Era Fallada.
— Buongiorno. Quando sei andato a letto? — domandò Carlsen.
— Verso le due. Sai una cosa? Avevo torto. Il conte non è affatto un ciarlatano.
— Io non l’ho mai pensato.
Fallada andò a guardare dalla finestra.
— Abbiamo parlato di te — disse. — Il conte pensa che l’incontro con l’aliena abbia influito su di te più di quanto credi.
Carlsen fece per parlare, e ancora una volta sentì la profonda riluttanza a confidarsi. Poiché Fallada rimaneva in silenzio, con uno sforzo di volontà riuscì a dirgli:
— Devo parlarti.
Il suono del gong salì dal pianterreno. Fallada chiese:
— Possiamo rimandare a dopo colazione?
— Direi di sì. Anzi, sarà meglio che sia presente anche von Geijerstam.
Fallada lo guardò in modo curioso, ma non disse niente.
Gli altri, anche Selma, erano già tutti a tavola. La sala per la prima colazione era rivolta a oriente, e dalle finestre entrava la luce abbagliante del sole. — Buongiorno! Dormito bene? — chiese il conte.
— Pesantemente — rispose Carlsen. Quell’avverbio rispondeva alla domanda in modo sincero e preciso.
Andò a sedersi fra Selma e Louise. Von Geijerstam disse: — Speriamo tutti che possiate trattenervi almeno un altro giorno.
Carlsen guardò Fallada. — Dipende da Hans. Io sono libero, ma lui ha lavoro che l’aspetta.
Anneleise Freytag disse: — Oh, per favore, restate ancora un po’.
Nell’allungare la mano per prendere le fette tostate, Carlsen sfiorò le dita della ragazza francese. Istantaneamente seppe che lei era al corrente di quello che c’era stato fra lui e Selma. Non era un’intuizione ma una certezza. Ne rimase colpito. E insieme fu colpito dal desiderio che provava per Louise. Non si trattava del solito desiderio maschile di spogliare una ragazza attraente. Era qualcosa connessa alla vitalità e all’ardore che emanavano dal giovane corpo della francese. Aveva voglia di premere il proprio corpo nudo contro quello di lei e di succhiarne dolcemente la vita. Un attimo dopo si rese conto di avere lo stesso desiderio nei confronti di Anneleise, e che quel desiderio gli dava il potere di leggere nella mente delle ragazze: tutte e due sapevano che Selma aveva passato la notte con lui, e lo sapevano perché Selma aveva lasciato socchiusa la porta della propria camera, con la luce accesa. Louise era passata là davanti alle sette e un quarto, aveva dato un’occhiata dentro, e aveva visto il letto intatto.