Fallada e von Geijerstam protestarono contemporaneamente. Fallada disse: — Scusatemi…
Von Geijerstam disse: — Ma non capite? Ogni uomo è in grado di avere ogni specie di desiderio. Avete letto la mia relazione sul primo caso di vampirismo in cui mi sono imbattuto?
— Il giovane pittore?
— Sì. Per essere esatti era uno scultore, non un pittore. Si chiamava Torsten Vetterlund. Aveva un fisico poderoso e possedeva naturali inclinazioni al sadismo, anche se non molto accentuate. Quella ragazza, Nina von Gerstein, riuscì a trasformarlo in un masochista nevrotico. Capite il perché?
Carlsen annuì. Fallada invece chiese, sorpreso: — Perché?
Carlsen rispose per von Geijerstam: — Perché non poteva succhiare energia da un sadico.
— Esatto — disse il conte. — Il sadico vuole assorbire, non essere assorbito. Perciò Nina gli ha fatto mutare orientamento. C’è riuscita soddisfacendo tutte le sue fantasie di sadismo finché lui non si è trovato a dipendere completamente da lei. Dopo averlo ridotto suo schiavo, Nina ha potuto cominciare a sottrargli energia.
— E come l’avete curato? — chiese Fallada.
— È stato molto interessante. Notai subito elementi contraddittori nei sintomi. Lasciato dalla ragazza, Torsten diventò un esibizionista. Un evidente segno di masochismo: godeva ad autoumiliarsi. Lui però mi confidò anche di aver sviluppato il desiderio di spogliare i bambini e di morderli. E questo era sadismo. Molti sadici hanno in sé anche elementi di masochismo. E viceversa. Ma io mi convinsi che lui stava cercando di combattere il masochismo sviluppando il suo ritrovato sadismo. Mi parlò delle fantasie erotiche che l’avevano assillato prima del suo incontro con Nina. Erano tutte tendenzialmente sadiche. Mi raccontò di una prostituta, che aveva frequentato regolarmente. La donna gli permetteva di legarla prima di fare l’amore. A questo punto la soluzione fu chiara: avrei dovuto incoraggiarlo a sviluppare di nuovo le sue tendenze per il sadismo. Ricominciò a frequentare quella prostituta. Poi conobbe una commessa alla quale piaceva essere frustata. Andò a finire che la sposò, e vissero entrambi felici.
— E il vampirismo cessò?
— Sì, cessò. Non posso pretendere d’essere stato io a curarlo. Aveva già cominciato a curarsi da sé prima di consultarmi.
Carlsen fece un sorriso acido. — Seguendo la stessa logica, io allora dovrei trasformarmi in masochista.
Von Geijerstam fece schioccare le dita. — No, ma mi viene in mente una cosa — disse con enfasi. — Me ne ero dimenticato! — Si voltò a guardare il lago, la fronte corrugata. Carlsen e Fallada aspettarono il seguito. Poi il conte si alzò di scatto e disse: — Venite. Voglio presentarvi una mia inquilina.
Fallada disse: — Non sapevo che aveste anche inquilini.
— Venite — si limitò a ripetere von Geijerstam. E si avviò verso la collina, lungo il sentiero in salita. Fallada diede un’occhiata a Carlsen, e si strinse nelle spalle. Entrambi seguivano von Geijerstam. Il sentiero costeggiava il ruscello. — Vi ricordate quello che vi ho detto della sorgente di Sant’Eric? — disse von Geijerstam voltandosi. — Bene, là c’è una vecchia lettone che abita in uno dei miei “cottage”. È una veggente.
Il sentiero si fece più ripido, e il folto tappeto di aghi di pino diventò più sdrucciolevole. Gli alberi erano così fitti che il sole quasi non li penetrava. Dopo pochi minuti di quella salita, Carlsen e Fallada cominciarono ad ansimare. Von Geijerstam invece camminava svelto davanti a loro, per niente in difficoltà. Si fermò ad aspettarli. — Sono contento di aver pensato a lei. È una donna eccezionale. Una volta abitava dalle parti di Skarvjö, ma quei campagnoli avevano paura di lei. Il suo aspetto è un po’… — La fine della frase venne coperta dai latrati di un cane. Una bestia enorme, col pelo color della creta, correva verso di loro. Von Geijerstam tese una mano. Il cane si fermò, l’annusò, poi si mise a trotterellargli al fianco.
Von Geijerstam si fermò ai margini di una radura. Il terreno, lì, era cosparso di rocce. Oltre la radura, sorgeva una piccola costruzione di legno. Il ruscello le passava accando formando, in quel punto, una cascata. Von Geijerstam gridò: — “Labrït mate”. — Ma nessuno rispose.
Allora von Geijerstam disse a Carlsen: — Date un’occhiata alla sorgente mentre io vado a vedere se sta ancora dormendo. — Indicò una sporgenza rocciosa. — Quello è il Pozzo di Sant’Eric. I malati di artrite, di gotta o di lebbra dovrebbero bagnarsi in quell’acqua.
Preceduti dal cane, Carlsen e Fallada salirono una scala di sassi che portava verso la roccia. Sopra la sorgente c’era una specie di tetto, una lastra di granito, su cui i licheni avevano tessuto una specie di velluto verde. L’acqua, protetta tutt’attorno da altre lastre, sgorgava da sotto una enorme pietra inclinata in su. Carlsen si inginocchiò a guardare nell’acqua. Era limpidissima, ma tanto profonda che non si riusciva a vedere il fondo. Gli venne fatto di pensare a un oblò della “Hermes”, e nello stesso momento rivide, con allucinante chiarezza, lo scafo del relitto spaziale alla deriva, come se fosse riflesso in quell’acqua. Vi intinse una mano. L’acqua era gelida, e dopo un momento lui sentì le dita indolenzite.
Si rialzò, appoggiandosi alla roccia.
— Non ti senti bene? — chiese Fallada.
— Forse sto diventando matto — disse Carlsen — ma per il resto sto bene — e sorrise.
Von Geijerstam apparve in fondo alla discesa. Accanto a lui c’era una vecchia vestita di marrone. Mentre scendevano per raggiungerli, Carlsen vide che le mancava il naso, e che aveva un occhio più grande dell’altro. Eppure non faceva ribrezzo. Aveva le guance rosse come mele.
Von Geijerstam disse: — Questa è Moa. — Poi si rivolse alla donna in lettone e le presentò Fallada e Carlsen. La vecchia sorrise e accennò un inchino, poi fece segno di seguirla in casa. Carlsen fu colpito dal fatto che, malgrado le sue deformità, la donna dava un’impressione di giovinezza e di dolcezza.
La stanza in cui entrarono era ampia e stranamente spoglia. La riscaldava una grande stufa sistemata al centro. Il pavimento era coperto da una stuoia rozza. I soli mobili erano un letto basso, un tavolo, un armadio, e una vecchia ruota da tessitrice. Carlsen notò con perplessità una rampa di scale che saliva a una specie di terrazzino con ringhiera, e lì finiva tutto.
La donna parlò in lettone, indicando il pavimento. Von Geijerstam fece da interprete. — Si scusa per la mancanza di sedie — disse. — Lei si siede sempre sul pavimento. È una specie di… disciplina mistica.
La vecchia indicò una serie di cuscini disposti lungo una parete. Carlsen e Fallada si sedettero. La donna si curvò verso Carlsen, gli studiò la faccia e gli posò una mano sulla fronte. Von Geijerstam tradusse le parole della donna. — Vuol sapere se siete malato.
— Ditele che non lo so — disse Carlsen. — E che è proprio quello che vorrei sapere.
La donna aprì l’armadio e ne tolse un filo avvoltolato. Ne attaccò un’estremità al suo antico filatoio. Dall’altra estremità pendeva una pallina di legno, del diametro di circa due centimetri. Von Geijerstam spiegò: — Adesso vi esaminerà col pendolo.
— A che cosa serve?
— È una specie di misuratore lambda. Misurerà il vostro campo vitale.
Fallada disse: — Non so come, ma quell’aggeggio funziona. Avevamo una vecchia cameriera che se ne serviva.
— E adesso, cosa sta facendo? — chiese Carlsen, osservando i movimenti della vecchia.
— Sta misurando la lunghezza di filo giusta per un uomo. Circa sessanta centimetri.
La donna chiese qualcosa a Carlsen. Von Geijerstam tradusse.
— Vi prega di stendervi sul pavimento. Dice che è pulito.
Carlsen si sdraiò sulla stuoia guardando la donna che gli stava accanto, in piedi. La vecchia teneva il pendolo sopra di lui, col braccio teso. E il pendolo subito si mise a oscillare avanti e indietro, avanti e indietro… Qualche secondo, poi prese a muoversi in cerchio. Dai movimenti delle labbra, Carlsen immaginò che la donna stesse contando. Dopo un minuto, il pendolo tornò al movimento di va e vieni. La vecchia sorrise e disse qualcosa a von Geijerstam. Il conte tradusse per Carlsen. — Dice che tutto va bene. Non siete malato e il vostro campo di salute è eccezionalmente forte.