Il pozzo in cui stavano calandosi era profondo circa un chilometro e mezzo e largo trecentocinquanta metri. Le pareti — poiché c’erano delle pareti — erano coperte di disegni uguali a quelli che decoravano il primo immenso compartimento. La luce veniva dal pavimento e da una enorme colonna situata al centro. Si udì la voce di Murchison chiedere: — Cosa diavolo è? Un monumento? — Poi Craigie disse: — È di vetro!
Carlsen allungò le braccia per attutire l’impatto col pavimento, si rotolò come un paracadutista e rimbalzò per un centinaio di metri. Quando riuscì a rimettersi in piedi si trovò alla base del piedestallo della colonna trasparente che a Murchison aveva dato l’idea di un monumento.
Anche quella colonna, come tutto sull’astronave, era molto più grande di quanto sembrava a prima vista. Carlsen calcolò che il diametro doveva essere di almeno cinquanta metri. Lo disse a voce alta, per il documentario. All’interno della colonna si vedevano sospese vaghe forme enormi. Nella luce fosforescente sembravano giganteschi polipi neri.
Carlsen si spinse in avanti e in su finché si trovò davanti a una di quelle forme. Vi diresse sopra il raggio della torcia. Nella luce fortissima, Carlsen si accorse che era arancione, non nera. Da vicino non sembrava più un polipo ma piuttosto un groviglio di rampicanti fungosi emergenti da un’unica radice.
Arrivato di fianco a lui Ives chiese: — Che cosa ne pensi, capitano?
Carlsen intuì quello che Ives stava pensando. — Non credo che siano state queste cose a costruire l’astronave — disse.
Murchison premette il vetro del casco contro la colonna per avvicinarsi il più possibile. — Che cosa saranno? Vegetali? O una specie di seppie?
— Probabilmente né l’uno né l’altro. Forse sono una forma di vita del tutto sconosciuta.
Murchison esclamò: — Dio mio!
Nell’esclamazione Carlsen avvertì un senso di paura che gli fece battere il cuore. Quando parlò, anche la sua voce uscì strozzata. — Cos’è quello?
Qualcosa di indistinto si muoveva dietro quelle seppie bizzarre. La voce di Craigie disse: — Sono io!
— Che razza di scherzo è questo? — La voce di Carlsen vibrava di collera.
— Sono dentro al tubo — disse Craigie. — È aperto in alto ed è cavo. Vedo qualcosa giù in fondo.
Con cautela, Carlsen si spinse verso l’alto premendo le mani guantate contro il vetro della colonna. Nonostante il condizionamento termico della tuta, sudava. Si librò fin sopra la sommità della colonna, compì una virata e riuscì a fermarsi. Allora vide che, come aveva detto Craigie, la colonna era cava. Nell’intercapedine fra i due enormi cilindri, larga circa tre metri, galleggiavano le curiose forme di octopodi. Guardando in giù nel cuore della colonna, Carlsen notò che la luce verdazzurra era più intensa verso il basso. Veniva dunque su dal fondo della colonna, o meglio da sotto il pavimento.
— Donald? Dove sei?
Craigie rispose: — Sono qui sotto. Per me questi sono gli alloggiamenti.
Carlsen allungò un braccio per afferrare Murchison che si era dato una spinta troppo energica e stava per finire chissà dove. Poi, senza parlare, i due uomini si calarono lentamente a testa in giù nell’interno della colonna scendendo, con disinvoltura dovuta all’abitudine, verso la luce verdazzurra. Dopo pochi istanti si trovarono immersi in una specie di infinito mare blu che ricordò a Carlsen la Grotta Azzurra di Capri. Guardando in su, il Comandante notò che il soffitto, ovvero il pavimento del locale da cui erano discesi, era semitrasparente, come di cristallo.
Il chiarore che avevano visto dall’alto era la luce che veniva su da lì, e che filtrava attraverso quel soffitto-pavimento. Contro la parete di destra, un’altra scalinata scendeva ancora più in basso. Le dimensioni, però, erano adesso più simili a quelle della “Hermes”. La luce, lì, veniva dalle pareti e dal pavimento. C’erano costruzioni al centro dell’area, quadrate e anch’esse semitrasparenti. E a circa trecento metri di distanza, a un’estremità del locale, sembrò a Carlsen di vedere delle stelle risplendere nell’oscurità. Parte della parete era stata lacerata: si vedeva la spessa lastra metallica spaccata e ripiegata all’indietro, come se qualcuno l’avesse sfondata con un martello da gigante. Carlsen puntò l’indice. — Probabilmente è questo che ha bloccato qui l’astronave.
Il fascino morboso che sempre emana da una tragedia li attirò sul posto. Dalla “Hermes” Dabrowsky stava chiedendo altri particolari.
Carlsen si fermò sull’orlo dello squarcio osservando la paratia contorta. — Qualcosa di molto grosso ha aperto un altro foro nello scafo, un buco largo circa trenta metri. Forse è stato prodotto da un corpo incandescente, perché in certi punti il metallo pare fuso. L’aria dev’essere fuoriuscita dall’astronave in pochi secondi, se questa zona non era isolata dal resto. E comunque, chi si trovava qui non è certo sopravvissuto.
Dabrowsky chiese: — E le costruzioni al centro del locale, cosa sono?
— Adesso andiamo a vedere.
Ives, che li aveva raggiunti, chiamò: — Capitano!
Carlsen guardò da quella parte, e vide Ives già vicino alle costruzioni. Faceva scorrere il raggio della lampada su quella specie di cubi. Le pareti erano trasparenti e il fascio luminoso le passava ora da parte a parte, allargandosi a ventaglio.
— Capitano… C’è gente qui dentro!
Carlsen dovette dominare l’impulso di slanciarsi e coprire in un balzo i trecento metri che lo separavano da Ives. Se l’avesse fatto, avrebbe superato le costruzioni e sarebbe finito con forza contro la parete di fondo. Sforzandosi a procedere lentamente, chiese a Ives: — Che genere di gente? Ed è viva?
— No, sono morti. Esseri umani. O per lo meno umanoidi!
Carlsen si fermò davanti alla prima di quelle costruzioni. Le pareti erano perfettamente trasparenti come il pannello d’osservazione della “Hermes”. Nessun dubbio che quelli fossero gli alloggiamenti. Dentro vide oggetti che gli parvero tavoli e sedie, di forma insolita dall’utilizzazione chiarissima. E dietro la parete di vetro, a sessanta centimetri da lui c’era disteso un uomo. Era calvo, con le guance incavate e giallastre, gli occhi fissi al soffitto. Il corpo era coperto da un lenzuolo di tela grezza, e sotto il lenzuolo ben teso si indovinava la sagoma delle cinghie che evidentemente servivano a tenere il corpo aderente al letto.
Murchison disse: — Capitano, qui c’è una donna. — Stava guardando nel cubo vicino.
Craigie, Ives e Carlsen lo raggiunsero. La figura assicurata al letto era indiscutibilmente femminile. Sarebbe stato evidente che si trattava di una donna anche senza il rigonfio del seno, sotto il lenzuolo. Il viso aveva lineamenti delicati. Le labbra erano rosee. Gli uomini non vedevano una donna da quasi un anno, e tutti provarono un acuto senso di nostalgia e una forte reazione fisica.
— È bionda, anche — disse Murchison.
Più che biondi, i capelli erano color champagne, quasi bianchi, e tagliati cortissimi.
Craigie disse: — Qui ce n’è un’altra. — Questa aveva i capelli scuri ed era più giovane della prima. Sarebbe stata anche carina se non fosse stato per il colorito cadaverico.
I cubi trasparenti erano separati fra loro di qualche metro, e a Carlsen vennero in mente le tombe degli egizi. Le contarono. Ce n’erano trenta. In ognuna c’era un individuo addormentato o in stato di animazione sospesa. Erano otto uomini e sei donne anziani, sei maschi giovani e dieci donne fra i diciotto e i venticinque anni.
— Ma come diavolo sono entrati in questi cubi di vetro?
Già. Murchison aveva ragione. Non c’erano porte in quei grossi cubi. Fecero il giro di due o tre cabine. Il vetro era solido e tutto d’un pezzo. Il soffitto, di vetro semitrasparente, sembrava fuso con il resto.