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Mentre il pullmino correva silenzioso sul liscio asfalto dell’aeroporto, Fallada cercò di nascondere la propria inquietudine.

Capiva i timori di Carlsen per la moglie e i figli. Aveva visto la teleregistrazione automatica della morte di Seth Adams, e ne aveva avuto l’impressione di un’immediata risposta mortale a uno stimolo, simile al chiudersi di una dionea sull’insetto che la sfiora.

Arrivati all’interno dell’aeroporto andarono verso le cabine dei teleschermi. Carlsen chiamò Jelka, che apparve in accappatoio.

— Stavo lavandomi i capelli — disse lei. — Mandy e Tom hanno detto che saranno qui alle nove. Ci sarai per quell’ora?

— Non ne sono sicuro. Fallada sta chiamando Heseltine in questo momento… Ti richiamo dopo.

Nel frattempo Fallada aveva parlato con il sergente di servizio, il quale gli aveva detto che Heseltine aspettava una chiamata a casa, cosa che lui fece subito. Heseltine comparve sullo schermo, masticando. Fallada disse: — Mi scuso per averti disturbato durante la cena…

— Non importa… avevo quasi finito. Dove sei stato?

— Te lo dirò quando c’incontriamo. Identificate, le due targhe?

— Sì — disse Heseltine togliendo di tasca un foglietto. — Una era una macchina straniera, di una coppia danese in luna di miele. L’altra appartiene a un certo Pryce, che abita a Holmfirth.

— Dov’è Holmfirth?

— Nello Yorkshire.

— Bene. Sarà opportuno che ci si veda subito. Sei libero?

— Certo. Stavo per versarmi un brandy e fumare un sigaro. Vieni al più presto, così mi tieni compagnia. Carlsen è con te?

— Sì.

— Bene. Mia moglie non vede l’ora di conoscerlo. Vi aspetto.

Uscendo dall’aeroporto si fermarono all’edicola, e Fallada comperò una carta dell’Inghilterra. Nell’elitassì, la spiegò, la studiò per un paio di minuti, fece un’esclamazione soddisfatta, tese la carta a Carlsen, l’indice premuto sulla pagina, e disse: — Guarda.

Holmfirth era un piccolo centro a una decina di chilometri da Huddesfield. I colori della carta indicavano terreno collinoso, con sfumature gialle e marroni.

Holmfirth si trovava ai margini della zona marrone.

— Saranno circa quattrocento chilometri da Londra. Con una cavalletta possiamo arrivarci in meno di un’ora.

Carlsen disse: — Non questa sera però!

— Stanco?

— Sì — rispose, ma sapeva benissimo che non era vero. Aveva paura. Aveva paura di andare a casa, paura di affrontare gli alieni, paura di tutto. La logica però gli diceva che non aveva niente da perdere a continuare.

L’elitassì atterrò sulla piattaforma di Sloane Square. Da lì proseguirono a piedi fino a Eaton Place distante poche centinaia di metri.

— A proposito — disse Fallada — la moglie di Heseltine è ansiosa di conoscerti. È stata una delle più belle ragazze di Londra. — Posò una mano sulla spalla di Carlsen. — Ti prego quindi di tenere a bada il tuo fascino fatale.

Il tono era scherzoso, ma Carlsen ormai lo conosceva abbastanza da cogliere la serietà sottintesa. Sorrise, a disagio.

Si fermarono davanti all’ingresso di una casa a due piani, in mattoni rossi, con una cancellata dell’epoca vittoriana. La porta venne aperta da una bella donna in kimono verde. Fallada la baciò sulle guance.

— Peggy, ti presento Olaf Carlsen — le disse.

— Sono felice di conoscervi, Comandante.

Carlsen se l’era immaginata meno giovane. Disse: — Il piacere è mio, signora. — Le loro mani si strinsero. Senza averlo voluto, si trovò coinvolto coi pensieri e i sentimenti della donna. Per fortuna nel corridoio la luce era scarsa, poiché lui era certo di essere arrossito.

— Percy è nel suo studio. Dovete parlare di lavoro?

Diplomaticamente Fallada rispose: — Anche, ma basteranno pochi minuti.

— Lo spero — disse la signora Heseltine — ho appena fatto il caffè.

Li accompagnò in salotto. Era una stanza simpatica, accogliente, arredata con mobili antichi, stile inizio ventunesimo secolo.

— Adesso chiamo Percy. Non vi aspettava tanto presto.

Fallada disse: — E se salissi io? Olaf, tieni compagnia a Lady Heseltine mentre io salgo a chiamarlo.

Mentre Fallada usciva, Peggy chiese: — Con latte o senza?

— Latte, per favore.

— E brandy?

— Solo una goccia.

La osservò mentre preparava la tazza, e sentì dentro di sé un miscuglio di sensazioni. L’attimo passato nella sua mente gliel’aveva fatta conoscere più di quanto sarebbe stato possibile in settimane di intimità. Il potere di penetrare i pensieri più segreti di una bella donna gli dava grande soddisfazione e insieme lo turbava. Gli sembrava la prova che stava tramutandosi in un altro.

Peggy Heseltine posò caffè e brandy sul tavolino.

— Curioso — disse — ma ho la sensazione di conoscervi bene. Forse perché vi ho visto spesso alla televisione.

Le loro mani si sfiorarono mentre lei gli porgeva lo zucchero. Carlsen rimise la zuccheriera sul tavolino, e prese una mano della donna. Guardandola negli occhi le chiese: — Ditemi, riuscite a leggere i miei pensieri?

Lei lo guardò sorpresa, ma non tentò di liberare la mano.

Penetrando nella mente della donna lui seppe che Lady Heseltine stava per rispondere di no, poi lei si trattenne, e permise che la sua mente si facesse più ricettiva. Subito lui sentì un accenno di comunicazione. Peggy disse, esitando: — Credo… credo che potrei.

Lui le lasciò la mano, e subito i pensieri della donna diventarono remoti, imprecisi, come una cattiva comunicazione via-cavo. Lei disse: — Che cosa può significare?

— Vostro marito vi ha detto dei vampiri?

Lei annuì.

— Allora dovreste saperlo.

Come obbedendo a una suggestione, lei gli si sedette accanto, sul divano. Lui le riprese la mano, posando il pollice al centro del polso, le altre dita premute sul dorso. Sapeva istintivamente che questo contatto avrebbe favorito la ricezione. Lei abbassò lo sguardo, concentrandosi, Era ancora troppo confusa per riuscire a leggere i pensieri di lui con chiarezza, ma Carlsen era perfettamente conscio di una comunicazione a due sensi. Anche lei percepì le risposte-sensazioni. Il kimono si era aperto lasciando intravedere l’orlo di pizzo del reggiseno. Senza aver visto la direzione dello sguardo di Carlsen, la donna alzò una mano alla scollatura. Poi si accorse che lui sorrideva, e arrossì, rendendosi però conto dell’assurdità di quel pudore perché, in realtà, era come se fosse lì nuda.

Per dieci minuti rimasero seduti in assoluto silenzio. Più che comunicare fra loro, si osservavano. Lui era penetrato nella mente consapevole di lei, vedeva se stesso attraverso gli occhi della donna, ed era conscio del calore del corpo della donna. Un’ora prima lei aveva fatto il bagno e si era lavata i capelli. Lui sentiva la soddisfazione che provava lei nel sentirsi riposata e fresca, con addosso il profumo leggero dei sali da bagno. Carlsen non si era mai reso conto, prima, che la consapevolezza dell’essenza femminile fosse tanto dissimile da quella maschile. A un certo punto un gatto persiano saltò in grembo a Peggy e le strofinò il muso sul petto, facendo le fusa, e lui colse in un lampo le sensazioni del gatto, e si stupì di nuovo dell’enorme differenza rispetto alle sue. Per un momento rimase stordito al pensiero di milioni di individui, ognuno un universo a sé, ognuno unico, come un pianeta ancora da esplorare.

Un teleschermo suonò al piano di sopra, poi tacque. Lei ritrasse la mano, controvoglia. Disse a voce bassa: — Il caffè si sarà raffreddato.

— Non importa. — Bevve il brandy, gustandolo.

— Credete che questo sia motivo sufficiente per un divorzio? — chiese Peggy. Il tono scherzoso suonò falso.

Lui rispose con serietà: — In un certo senso, sì.