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L’uomo disse in tono cupo: — Centocinquantanove.

La donna, che adesso pareva rassicurata, li riaccompagnò alla porta, e indicò una casa a circa cinquanta metri da lì.

— Quella con le tende rosse, non potete sbagliare.

La casa con le tende rosse era molto meno lussuosa dell’altra. Il giardino era pieno di erbacce. La macchina che li interessava era davanti alla porta del garage. Heseltine suonò il campanello. Una voce femminile uscì dal piccolo altoparlante inserito nel muro. — Chi è? — chiese.

— Polizia. Possiamo parlare col signor Pryce?

Nessuna risposta, ma un attimo dopo la porta si aprì.

Una piccola donna bionda, con in braccio un bambino troppo pesante per lei, li sbirciò timidamente da dietro la testa del piccolo. Sarebbe stata carina se non avesse avuto quell’aria da cane bastonato.

— Cosa volete? — chiese a voce bassa.

— Possiamo parlare con vostro marito?

— È già andato a letto.

— Vi dispiace vedere se dorme già? È molto importante.

La donna li guardò, chiaramente intimidita dal tono cortese ma autoritario di Heseltine.

— Ecco… se volete aspettare un momento…

— Certo.

La guardarono salire faticosamente le scale, barcollando quasi, sotto il peso del bambino.

Passarono alcuni minuti. Heseltine sospirò e disse: — Mi fa ricordare il periodo in cui facevo il servizio di pattuglia. Non mi è mai piaciuto violare l’intimità della gente.

Restarono in attesa nell’atrio, guardandosi intorno. Una carrozzina da bambini, un triciclo, uno scatolone di giocattoli… Cinque minuti dopo un uomo comparve in cima alla scala. Carlsen notò che era rosso di capelli, aveva parecchi chili di troppo, e il colorito era malaticcio. Aveva l’aria preoccupata, leggermente circospetta.

Sembrò rassicurarsi quando Heseltine gli chiese, scusandosi per averlo disturbato, se poteva concedergli qualche minuto. L’uomo guardò su per la scala, poi li invitò a entrare in soggiorno. Nella stanza c’era acceso un televisore a colori da sessanta pollici, il cui schermo era l’unica fonte di illuminazione. Pryce abbassò il volume, accese la luce, e si lasciò cadere su una poltrona, passandosi una mano sugli occhi. Aveva mani grosse, coperte di peli rossicci.

Heseltine disse: — Signor Pryce, alle undici e venti circa di questa mattina, voi eravate a bordo della macchina che adesso è qui davanti a casa vostra. Eravate sulla collina.

L’uomo fece sentire una specie di mugolìo ma non disse niente. Aveva l’aria di chi si è appena svegliato da un sonno profondo. Carlsen ne sentiva la stanchezza e la tensione.

Heseltine disse: — Vorremmo informazioni sulla ragazza col vestito a strisce rosse e gialle.

L’uomo alzò subito gli occhi, poi li riabbassò.

— Non ho fatto niente contro la legge, no? — disse.

La voce di Heseltine si fece rassicurante. — Assolutamente niente, signor Pryce. Nessuno ha detto il contrario.

L’uomo chiese, in tono aggressivo: — E allora, perché siete qui?

Fu Carlsen a intuire il sistema giusto. Guardandosi intorno aveva visto varie fotografie. In quasi tutte Pryce era ritratto sorridente, in gruppo con altri uomini.

Il signor Pryce era evidentemente un estroverso al quale non piaceva che lo facessero sentire in colpa. Carlsen si sedette in modo da vedere bene l’uomo in faccia.

— Voglio essere franco con voi, signor Pryce — disse. — Abbiamo bisogno del vostro aiuto, e tutto quello che ci direte resterà fra noi. Vogliamo sapere che cos’è successo con quella ragazza.

Parlando, gli posò una mano sulla spalla. Immediatamente, fu come se si fosse inserito sullo schermo di qualcun altro. Era nella macchina di Pryce, e la scena era familiare, come un sogno già sognato. Pryce stava leggendo il giornale, e all’inizio non aveva notato la ragazza seduta sulla panchina poco lontano. Poi anche la ragazza fu lì, in macchina…

L’uomo chiese: — Che cos’ha fatto quella ragazza?

— Non ha fatto niente, ma dobbiamo rintracciarla. Dove siete andati, dopo che lei è salita in macchina?

Controvoglia l’uomo disse: — Verso la diga.

Carlsen ebbe una visione chiara della scena. I sedili abbassati, l’uomo che non riusciva a credere al suo colpo di fortuna mentre faceva scivolare la mano sulle cosce della ragazza… la sua sorpresa nello scoprire che lei non indossava biancheria intima…

— Dunque, avete fatto l’amore — disse Carlsen. — E poi?

Dal piano superiore venne un rumore di passi: Carlsen captò il sollievo di Pryce: la moglie non stava origliando alla porta.

— Siamo rimasti in macchina a chiacchierare. Poi lei ha proposto di andare in un albergo… E così siamo andati a Leeds.

— All’albergo “Europa” — disse Carlsen. — E a che ora ne siete uscito?

— Verso le sette.

— E a quell’ora la ragazza se ne era già andata?

L’uomo si strinse nelle spalle. — Sembra che voi sappiate già tutto. — La mano di Carlsen scivolò dalla spalla di Pryce, e il contatto si interruppe di colpo. Carlsen si alzò.

— Vi ringraziamo, signor Pryce. Ci siete stato molto utile.

Mentre si avviarono alla porta, Heseltine chiese: — Vi siete accordati per rivedervi?

L’uomo sospirò, poi annuì, senza parlare. Con uno sforzo si alzò per accompagnarli. Aprendo la porta guardò in faccia Carlsen. — Forse voi mi biasimate — disse. — Ma non capita spesso un colpo di fortuna come quello.

Sorridendo, Carlsen disse: — Se mi permettete, sembra che quella ragazza vi abbia svuotato.

L’uomo sorrise. Ebbe un attimo di genuino buon umore. — Ma ne valeva la pena — disse.

Mentre tornavano alla cavalletta, Heseltine chiese a Carlsen: — Voi cosa ne pensate?

— Di che cosa?

— Ne valeva la pena?

— Dal suo punto di vista, sì. Lei gli ha assorbito tutta l’energia, ma Pryce la recupererà in un paio di giorni. Non è peggio di una brutta sbornia.

— E non causa danni permanenti?

— Non saprei. La mia è soltanto una sensazione. Non so dirvi di più.

Heseltine lo guardò con espressione curiosa ma non disse niente. Sulla cavalletta, il pilota stava consultando una carta.

— Ho già parlato per radio con quelli dell’ospedale psichiatrico — disse. — Dovrebbe essere là, dove si vedono quelle luci, in cima alla collina… — Indicò.

Heseltine guardò l’orologio. — Dobbiamo sbrigarci. Si sta facendo tardi.

Quattro minuti dopo, i fari della cavalletta illuminarono il massiccio edificio grigio. Mentre si avvicinavano, le finestre cominciarono a spegnersi.

Fallada disse: — Le dieci. Ora di dormire, per i ricoverati.

Il prato davanti all’ospedale era illuminato da un riflettore. Si abbassarono dolcemente su un cuscino d’aria, ed Heseltine chiese: — Possiamo atterrare senza pericolo? Non faremo scattare l’allarme radar?

— È già stato disattivato, signore — disse il pilota. — Ho avvertito che saremmo arrivati verso le dieci.

Mentre toccavano terra, il portone dell’ospedale si aprì. Contro la luce del corridoio si stagliò una figura massiccia.

Heseltine disse: — Dev’essere il direttore. Quando gli ho parlato mi è sembrato un po’ strambo. — Poi si chinò a mormorare nell’orecchio di Fallada: — A proposito, sostiene di essere un tuo grande ammiratore.

— Spero che le due cose non siano collegate — disse Fallada.

L’uomo venne loro incontro.

— Quale onore Commissario, quale onore! Sono il dottor Armstrong…

Era enorme. Carlsen stimò che pesasse almeno centrotrenta chili. Indossava un vestito largo, grigio, di un taglio fuori moda ormai da vent’anni. La voce era ben modulata, una voce calda, da attore.