Heseltine gli strinse la mano. — Molto gentile da parte vostra riceverci a quest’ora. Vi presento il dottor Fallada, e il Comandante Carlsen.
Armstrong tese una mano grassa coperta di folti peli grigi. — Sono confuso! Tanti ospiti famosi tutti insieme!
Mentre parlava, Carlsen notò che aveva denti grossi, scuriti dalla nicotina.
Armstrong li precedette lungo un corridoio. L’odore della cera profumata alla violetta, non riusciva a coprire quello di sudore e di cucina. Armstrong parlava in continuazione, e la sua voce sonora e melliflua echeggiava nel corridoio disadorno.
— Mi dispiace che mia moglie non sia qui. Diventerà verde per l’invidia quando lo saprà. È andata a trovare dei parenti ad Aberdeen. Da questa parte, per favore. E il vostro pilota non entra?
— Resta a bordo per il momento. Guarderà il notiziario alla TV.
— Mi scuso per il terribile disordine — disse il direttore fermandosi davanti a una porta. Carlsen notò che il battente era rivestito di una lastra metallica. — Sto facendo tutto io e… oh, George, sei ancora qui?
Un bel giovanotto leggermente strabico e con l’espressione assente disse: — Quasi finito.
— Be’, lascia stare. Farai domani mattina. Dovresti essere già in camera tua. Prima d’andartene, però, portaci un po’ di ghiaccio. — Mentre il giovane usciva, Armstrong mormorò: — È uno dei nostri pazienti fidati. Un bravo ragazzo.
Carlsen chiese: — Perché è qui?
— Ha ucciso la sorella minore. Per gelosia. Prego, accomodatevi, signori. Accettate un whisky, vero?
— Grazie.
Fallada notò una rivista appoggiata su una poltrona. — Vedo che state leggendo il mio articolo sul vampirismo — disse.
— Oh, sì. Ho conservato tutti e quattro gli articoli apparsi sulla rivista di parapsicologia. Estremamente interessanti! Perché non scrivete un libro?
— L’ho già scritto.
— Davvero? Magnifico! Non vedo l’ora di leggerlo. — Porse a Fallada un bicchiere con una abbondante razione di whisky. — È tutto così vero quello che dite. Mia moglie, per esempio, mi prosciuga! — Sorrise per far capire che stava scherzando.
Il giovane mise sul tavolo una coppa piena di cubetti di ghiaccio. Armstrong lo congedò: — Bravo — disse. — Adesso vai a dormire. Buona notte.
Uscito il giovane, Fallada disse: — E se invece se la svignasse per la porta principale?
— Non andrebbe lontano. Siamo circondati da un sistema di allarme elettronico.
— E se facesse uscire qualcuno dei prigionieri pericolosi?
— Impossibile. Sono chiusi in celle separate — rispose il direttore del manicomio criminale. — Allora, signori, alla vostra salute! Quasi non riesco a credere che siate davvero qui! — L’entusiasmo genuino lo rendeva quasi accettabile nonostante i suoi modi untuosi. Armstrong aggiunse: — Spero che sarete miei ospiti per la notte.
Heseltine disse: — Grazie, ma abbiamo già fissato le camere al Continental di Huddersfield.
— Potete disdirle.
Fallada disse, pensoso: — Può essere un’idea, considerato che domani mattina dovremo tornare qui.
— Magnifico! — esclamò Armstrong. — Ci sono camere già pronte nell’ala degli inservienti. E ora, cosa posso fare per voi?
Heseltine si protese in avanti. — Stavate leggendo quell’articolo di Fallada sul vampirismo — disse. — Credete che esistano sul serio i vampiri?
Mentre Heseltine parlava, Carlsen provò una specie di mancamento, come se stesse cadendo all’indietro nel vuoto. Le voci si fecero lontane, e intorno a lui emerse il freddo abisso spaziale. Sentì che stava perdendo energia, come se qualcuno gli avesse aperto una vena lasciandone sgorgare il sangue. Riprovò l’angoscia e lo smarrimento che aveva provato sul relitto alla deriva, e sentì in risposta la sofferenza e la tensione dell’aliena che ora suggeva la sua energia. La stanza diventò sfuocata, irreale, come se davanti ai suoi occhi fosse calato un sottile schermo argenteo, una leggera cascata d’acqua. Lui fluttuava in giù, come una foglia caduta da un albero altissimo. Insieme provava uno stimolo erotico nei muscoli del basso ventre e dei lombi. Per un attimo si rilassò, godendo della sensazione, poi si sforzò di resistere. La fuga di energia cessò immediatamente. Ora si sentiva pesante e stanco. L’aliena stava ancora suggendo energia, ma in piccola quantità. Con sorpresa si rese conto che lei non era conscia della sua vicinanza fisica. Per loro la distanza non contava: un milione di chilometri o pochi passi era lo stesso.
Tornò a udire la voce di Armstrong, e si sentì raggelare alle incredibili cose che diceva. Poi si accorse che in realtà Armstrong quelle cose non stava dicendole… L’uomo stava parlando di uno dei pazienti, ma le inflessioni della voce rivelavano i suoi pensieri e le sue sensazioni più profonde. Parve a Carlsen che il direttore del manicomio criminale fosse una specie di enorme ameba che galleggiava nel flusso psichico del suo manicomio come una medusa o un polipo in un mare caldo. La sua era una natura plurisessuata, non attratta solo da uomini o donne, ma da tutte le creature pulsanti di vita. Ciò che allarmava era la profonda, insoddisfatta voracità della sua bramosia. L’uomo era attratto dai ricoverati del suo ospedale con grande curiosità lasciva. Nella sua immaginazione aveva commesso violazioni più gravi di tutti i loro crimini. Un giorno, se il suo senso della realtà si fosse indebolito, avrebbe commesso un delitto di sadismo. Ma per ora si muoveva con prudenza estrema, con la cautela istintiva di un animale braccato.
Armstrong stava dicendo: — Si chiama Ellen, non Helen. Ellen Donaldson. È a capo del personale femminile da due anni.
Heseltine chiese: — Non è pericoloso per le donne lavorare in questo posto?
— Non quanto pensate. E poi, le donne vanno molto bene per i pazienti maschi, hanno su di loro un’influenza calmante.
Carlsen chiese: — Potrei vederla? — E tutti lo guardarono sorpresi.
Armstrong disse: — Certo. Non credo che sia già a letto. Posso chiederle di venire qui.
— No. Vorrei vederla da solo — disse Carlsen.
Un silenzio, poi Fallada disse: — Ti pare prudente?
— Non c’è pericolo. L’ho già incontrata prima, e sono sopravvissuto.
— L’avete incontrata? — chiese Armstrong, stupito.
Heseltine spiegò: — Alludeva alla aliena.
— Oh, capisco — disse Armstrong. Carlsen gli lesse nella mente: il direttore pensava che erano tutti un po’ matti, o almeno con le idee confuse. Questa certezza gli dava un senso di superiorità. Completamente assorbito dai suoi desideri ed emozioni, restava incredulo di fronte a tutto ciò che esulava dalla sua limitata comprensione.
Fallada disse: — Perché vuoi vederla a quest’ora? Non puoi aspettare fino a domattina?
Carlsen scosse la testa. — Di notte sono più attivi — disse. — È meglio adesso.
Heseltine annuì. — Sì, forse avete ragione. Però prendete questo — disse, e porse a Carlsen una scatoletta di plastica di due o tre centimetri di lato. Premette il pulsante inserito al centro, e subito un richiamo acuto, intermittente, venne da una tasca di Heseltine. — Se avete bisogno di noi, premete qui. Saremo da voi in pochi secondi. — Sollevò il pollice dal pulsante e il richiamo tacque.
Carlsen chiese: — Dov’è Ellen?
Armstrong si alzò. — Vi accompagno io — disse.
Guidò Carlsen fuori dall’edificio lungo un sentiero che girando attorno a un laghetto con ninfee attraversava un giardino cintato, fino a un cancello chiuso. Tolse di tasca una chiave e aprì. Carlsen vide una costruzione lunga e bassa con diverse porte, ciascuna illuminata da una lampada. — È l’ala delle infermiere — disse Armstrong. — Ellen Donaldson è al numero uno, l’ultima porta.
— Grazie.
— Non sarebbe meglio che vi accompagnassi per presentarvi?