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— Non volete il bicchiere della staffa?

Heseltine seguì l’esempio di Carlsen. — Siamo troppo stanchi — disse. — È meglio andare subito a letto.

Carlsen chiese: — Questo Reeves… A che ora fa colazione?

— Di solito alle otto — rispose Armstrong.

— Sarebbe possibile mettergli un tranquillante nel cibo, un leggero sedativo?

— Credo di sì, se lo ritenete necessario.

— Grazie.

Armstrong li accompagnò alla porta. Nell’atrio incontrarono Lamson che scendeva dal piano di sopra. Armstrong gli chiese: — Dove siete andato?

— A controllare Reeves, direttore. Quello che mi avete detto mi ha fatto pensare…

— E lui vi ha visto? — domandò Carlsen.

— Certo. Era sveglio, sveglissimo.

Uscirono e attraversarono il prato buio. Fallada camminava avanti, con Lamson. Carlsen disse a Heseltine: — Peccato che sia andato su.

— Perché? — disse Heseltine. — Mi sembra normale dare un’ultima occhiata ai prigionieri prima di andare a dormire.

— Non so… comunque, è troppo tardi per preoccuparsi.

Le loro tre camere erano adiacenti. Il pilota della cavalletta aveva già portato le loro valigie nelle rispettive stanze. Carlsen era in pigiama quando Fallada bussò alla porta ed entrò con in mano una bottiglia.

— Cosa ne dici di un whisky prima di dormire?

— Buona idea. — Carlsen andò a prendere due bicchieri in bagno.

Fallada si era tolto la giacca e allentato la cravatta. Fecero tintinnare i bicchieri prima di bere. Poi Fallada disse: — Mi ha colpito la tua osservazione sullo sdoppiamento di personalità. Credi davvero che quelle creature non riuscirebbero a impossessarsi con la forza di una persona sana, normale?

Carlsen, seduto sul letto, scosse la testa. — Non ho detto questo. Probabilmente potrebbero invasare chiunque, con la forza o con l’astuzia. Ma una persona normale dovrebbero ucciderla. Probabilmente è per questo che hanno dovuto distruggere le loro prime vittime… come Clapperton.

— E il Primo Ministro? — disse Fallada.

— Proprio non lo so. È difficile da credere… eppure… c’è qualcosa in lui… — Corrugò la fronte guardando il bicchiere. — Ma forse i politicanti hanno tutti un qualcosa… quella loro capacità di esprimersi in maniera equivoca… Non possono permettersi d’essere onesti e sinceri come altri. Devono essere subdoli, evasivi…

— In una parola, diplomatici.

— Già. È una qualità che ho notato anche in molti personaggi del clero che a me sembrano bugiardi di professione. O per lo meno sono degli illusi. — D’improvviso si animò. — Ecco, è proprio questo che volevo dire. Sono gli illusi coloro che sono più facile preda dei vampiri. Quelli che con una parte della mente pensano in un modo, e con l’altra in un altro. Jamieson mi dà questa impressione. È il tipo d’individuo che non riesce nemmeno a sapere quando è sincero e quando no.

Restarono seduti in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Fallada finì il suo whisky, poi disse: - Che cosa faremo, se questi esseri risultano indistruttibili? Se non troviamo il modo di costringerli a lasciare il nostro pianeta? — Poiché Carlsen non rispondeva, Fallada aggiunse: — Dobbiamo tenere conto di questa possibilità. Il mondo è pieno di criminali psicopatici. Ogni volta che ne prendessimo uno, loro potrebbero trasferirsi a un altro. Non ti pare?

Ancora una volta Carlsen ebbe un barlume di conoscenza seguito immediatamente da un senso di confusione, come se stesse guardando nella nebbia. Disse: — Non so cosa pensare. Non lo so proprio.

Fallada si alzò. — Sei stanco. Ti lascio andare a letto. — Si fermò con la mano sulla maniglia. — Ma pensaci sopra. Non si potrebbe trovare il modo di stabilire una specie di intesa con queste creature? Adesso sappiamo che non è indispensabile che uccidano o distruggano per nutrirsi, per sopravvivere. Pensa a quel Pryce. Io ho avuto l’impressione che cedere energia gli desse piacere. E lo farà di nuovo, per poter tornare a letto con quella donna… Vale la pena di rifletterci.

Carlsen sorrise. — Va bene, prometto che ci penserò.

— Buona notte — disse Fallada. — Sono nella camera accanto, nel caso avessi bisogno.

Uscì senza dire altro. Carlsen andò alla porta e fece scattare la serratura. Udì Fallada entrare nella stanza vicina, e sentì anche il rumore dell’acqua che scorreva in bagno. Si mise a letto e spense la luce. Fallada aveva ragione: era molto stanco. Ma appena chiuse gli occhi provò una curiosa impressione di sdoppiamento. Una parte di lui era a letto, e pensava a quello che avrebbe fatto il giorno dopo, e l’altra parte, staccata dal resto, lo osservava come se fosse un estraneo. Era una sensazione bizzarra, estranea a lui. Lasciò che il suo corpo sprofondasse nel sonno, mentre la mente osservava con distacco. Un minuto dopo perse conoscenza.

Il ritorno alla coscienza fu come il risalire da buie acque profonde. Restò là disteso, semiaddormentato, avvolto in un calore simile a quello del grembo materno. Era un senso di sicurezza, di profondo, beato rilassamento, accompagnato da una impressione di inesistenza del tempo. Allora Carlsen si rese conto che la aliena era lì. La ragazza bionda, snella, che lui aveva visto per l’ultima volta nell’edificio delle Ricerche Spaziali, era distesa accanto a lui.

Indossava un indumento di stoffa leggera come velo. Adesso era sveglio a sufficienza per dirsi che era impossibile, che quel corpo era rimasto a Hyde Park. Lei scosse la testa sorridendo. Cosciente di avere gli occhi chiusi, Carlsen si rese conto che l’immagine era quella di un sogno. Eppure, a differenza di un sogno, la visione possedeva una certa consistenza reale.

La mano di lei s’infilò nell’apertura del pigiama, e le dita fresche gli sfiorarono il petto. Lui sentì, in risposta, uno stimolo di desiderio. Lei gli premette la bocca contro la sua cercando di fargli schiudere le labbra. Lui aveva le braccia allungate lungo i fianchi, ed era incapace di muoverle. Cercò nuovamente di capire se stava sognando, ma non ci riuscì.

Lei non parlava, ma gli comunicava direttamente i suoi sentimenti. Gli si offriva, gli diceva di prenderla, e le dita si muovevano sul suo corpo. Al contatto Carlsen si sentiva elettrizzato, come se i suoi centi nervosi si accendessero di riflessi simili a cristalli che riflettano la luce del sole. Non aveva mai provato un piacere fisico di tale intensità, provò di nuovo a muovere le braccia, ma il suo copro sembrava paralizzato, inerte.

La ragazza spostò la testa, e le sue labbra gli sfiorarono il collo e poi il petto. Il piacere raggiunse un’intensità quasi dolorosa.

Gli parve che lei stesse dicendo: “Il corpo non ha importanza. È solo con la mente che si può sperimentare la libertà”. Tutto in lui sembrò confermare.

Fu colpito dall’idea che la sua mente, come il corpo, avesse raggiunto uno stato di passività totale. Non aveva più forza di volontà. Esisteva soltanto la volontà della aliena e la sua capacità di plasmarlo. Ne provò un improvviso disagio, una specie di irrigidimento. Subito sentì l’irritazione di lei, come un lampo di collera imperiosa. L’atteggiamento della aliena cambiò. Invece di offrirglisi, trasformata in un’onda carezzevole, gli ordinava adesso di non ribellarsi. Questo gli fece ricordare un episodio dimenticato ormai da oltre trent’anni: una ragazzetta, sua cugina, che voleva costringerlo a scambiare un cane di stoffa con un orsacchiotto. Lui si era rifiutato, e lei, arrabbiata, l’aveva afferrato per le braccia, scuotendolo. Adesso, come allora, l’imposizione suscitava in lui un’improvvisa resistenza. E insieme sapeva che se lei fosse tornata ai metodi persuasivi, lui avrebbe ceduto. Era lei che aveva in mano le carte. Tutte meno una. Non riusciva a dominare la collera. Non sopportava che le si ribellassero. Carlsen intuì un abisso di frustrazione. Si divincolò per liberarsi, per respingerla. E allora lei si fece violenta. Basta carezze. Lo teneva con forza, la bocca fattasi di colpo vorace. Era come essere avvolto dai tentacoli di un polipo, che gli cercava la gola con la bocca.