Il terrore gli arse i nervi, e lui si dibatté con violenza. Lei lo tenne saldo ancora un momento per dimostrargli la sua forza, ma ormai la collera omicida si era placata.
Per quanto fosse adesso completamente sveglio, era ancora incapace di muoversi. La paura l’aveva svuotato, togliendogli la forza di lottare.
Poteva ancora sentire i pensieri e le sensazioni della aliena, e ora riusciva anche a capire che cosa le aveva impedito di ucciderlo: la paura di lui le aveva suscitato il ricordo di creature in lotta per la sopravvivenza, trascinate in un vortice di avidità. Poi si era ricordata: per il momento, nessuno doveva morire. Uccidendo qualcuno avrebbe rovinato i loro piani. Anche se si fosse impossessata del corpo di quell’uomo, le sarebbe stato impossibile continuare a lungo l’inganno. Fallada si sarebbe accorto della differenza. E se ne sarebbero accorti la moglie e i figli dell’uomo. Bisognava lasciarlo vivere.
Lui si accorse di un nuovo tipo di pressione. Adesso non c’era più qualcuno a letto con lui. Del resto era sufficientemente sveglio per sapere che non c’era mai stato nessuno. E la aliena non era più una donna. Era diventata una creatura asessuata, una cosa. E la cosa era al di fuori di lui, e tentava di entrare nel suo corpo.
Le difese mentali di Carlsen erano alzate, come mani levate a proteggere la faccia, ma la cosa stava cercando di scostare quelle mani, di frantumare la sua volontà, e d’introdursi a forza nella sua intima essenza. Era un’azione brutale come uno stupro. Lui avrebbe voluto gridare, ma sapeva che nel farlo avrebbe abbassato la guardia.
Sotto la pressione implacabile sentì allentarsi le difese. La cosa stava penetrandole. Si rese conto di colpo delle conseguenze. La creatura voleva introdursi nel suo sistema nervoso per scollarlo dalla sua volontà. L’avrebbe ridotto prigioniero del suo cervello, incapace di muoversi, come una mosca intrappolata in una ragnatela, la cosa doveva mantenere vitale la sua personalità, ma solo per poter sfruttare il suo sapere. Il pensiero di essere costretto a condividere la propria mente con la aliena gli diede una forza insospettata. Serrò i denti, e la spinse via da sé. Questa volta riuscì a rialzare le barriere della volontà, rinchiudendosi in sé come se fosse tornato in posizione fetale. La cosa gli restò avvinghiata, senza allentare la stretta, con la speranza di fiaccarlo. Adesso non c’erano più finzioni. Erano nemici, e niente avrebbe cambiato questa realtà.
Passarono dieci minuti o forse più. Le forze cominciarono a tornargli.
L’arma principale della aliena era la paura. Ma lui si accorse che nel suo intimo non aveva paura, inoltre aveva intuito la debolezza dell’avversario: il collerico desiderio di imporre la propria volontà, che la rendeva imprudente. E adesso era stata messa in posizione da non poter distruggere ciò che odiava. Mentre questo pensiero gli attraversava la mente, Carlsen sentì che la cosa stava infuriandosi di nuovo. Le sue capacità di percezione erano intollerabili per la aliena. Essa aumentò la pressione, accanendosi contro le sue difese. Lui resistette con la forza della disperazione. Pochi minuti, e si accorse che la cosa era di nuovo sconfitta. Una istintiva ripugnanza di natura biologica aveva centuplicato la sua capacità di resistenza. Carlsen si sentì inorgoglito. Quella creatura era per molti versi più forte di lui, il suo potere e la sua conoscenza rendevano lui simile a un bambino, eppure una specie di legge universale la rendeva incapace di invadere la debole personalità contro il suo volere.
Di colpo la pressione diminuì. Lui aprì gli occhi che aveva tenuto serrati, e notò che il chiarore dell’alba schiariva il cielo. E si ritrovò solo. Mosse le braccia e si accorse di essere in un bagno di sudore, come se avesse avuto la febbre. Il pigiama era madido. Si tirò il lenzuolo fin sotto il mento, voltò il cuscino, e chiuse gli occhi. La stanza gli parve stranamente tranquilla e vuota. Un minuto dopo dormiva profondamente.
Venne svegliato dal rumore della chiave che girava nella serratura. Era il capo infermiere, Lamson, con un vassoio.
— Buon giorno — salutò Lamson in tono allegro. — È una bella giornata. Vi ho portato il caffè.
Carlsen si tirò su a sedere. — Siete stato molto gentile. Che ore sono?
— Le otto e un quarto. Il dottor Armstrong vi fa dire che la colazione sarà servita fra mezz’ora.
Posò il vassoio sulle ginocchia di Carlsen che, indicando una rivista posata sul vassoio, chiese: — Che cos’è? — La copertina gli sembrava familiare.
— Ecco, se non vi dispiace… — Lamson gli porse una penna. — Mio nipote è un vostro grande ammiratore. Non gli fareste un autografo sulla vostra fotografia? — e aprì la rivista.
— Ma certamente.
— Torno fra poco. Devo ancora portare il caffè agli altri ospiti. Uno non è il dottor Fallada, quello del programma “Dottore in criminologia”?
— Infatti.
— E l’altro… Mi sembra di aver visto anche lui alla TV.
— È Sir Percy Heseltine, l’Alto Commissario di Polizia.
Lamson si lasciò sfuggire un fischio. — Non capitano spesso ospiti così di riguardo! Per la verità, non ne abbiamo mai di ospiti, a parte i parenti dei ricoverati.
Uscì, lasciando la porta socchiusa. Carlsen lo vide allontanarsi spingendo un carrello.
Bevendo il caffè, rilesse l’articolo. Era intitolato “L’uomo del secolo: Olaf Carlsen”.
Fece una smorfia, ripensando a tutta la pubblicità che avevano fatto tre mesi prima. L’aveva stancato e sfibrato più delle difficili missioni nello spazio. Quello era uno delle decine e decine di articoli apparsi sui giornali di tutto il mondo. Di tono caramelloso, era illustrato con una foto su due pagine di Carlsen con Jelka e le bambine.
Quando Lamson tornò, lui gli chiese: — Come si chiama vostro nipote?
— George Bishop.
Carlsen scrisse: “A George, con simpatia”, firmò, e restituì a Lamson rivista e penna.
— George farà salti di gioia — disse il capo infermiere. E aggiunse, guardando la foto: — Avete due belle bambine.
— Vi ringrazio — disse Carlsen.
— Siete un uomo fortunato. — Ripiegò la rivista e se la mise in una tasca del camice.
— Voi non avete figli? — domandò Carlsen.
— No. Mia moglie non ne ha voluti.
— Siete sposato?
— Sì, ma adesso è finita. Ci siamo separati.
Carlsen cambiò argomento. — Oggi avete già visto Reeves?
— Sì, gli ho portato la colazione alle sette. Ci abbiamo messo dentro un sedativo, come ha detto il dottore.
— E in che condizioni era?
— Ecco, io direi che il sedativo non era necessario.
— Perché?
— Era molto tranquillo. — Lamson fece l’imitazione di un idiota, con lo sguardo vitreo e vacuo, la bocca aperta, le braccia penzoloni.
— Il sedativo lo farà dormire?
— No. Lo farà sentire contento e rilassato. Se intendete ipnotizzarlo bisogna che sia cosciente.
Carlsen chiese, incuriosito: — Come fa a sapere che vogliamo ipnotizzarlo? Ve l’ha detto il dottor Armstrong?
Lamson sorrise. — Non c’è stato bisogno di dirmelo. Mi ha detto di preparare la soluzione nortropinamethidina per un’iniezione. È un composto che viene usato prima d’ipnotizzare o in caso di grave shock, e io so che Reeves non ha avuto uno shock.
— Avreste dovuto fare l’investigatore.
— Grazie — disse Lamson.
— Quali sono gli effetti di quel composto?
— Provoca una lieve paralisi del sistema nervoso, la mente si svuota, per così dire. E dopo, è facile ipnotizzare. Il dottor Lyell, l’ex-direttore, se ne serviva spesso. Il dottor Armstrong invece è contrario a questo sistema.