— Perché?
Lamson si strinse nelle spalle. — Secondo lui equivale a un lavaggio del cervello — disse. Diede un’occhiata scrutatrice a Carlsen, decise che poteva fidarsi di lui, e aggiunse: — Per me sono tutte storie. Il dottor Lyell non voleva lavare il cervello a nessuno. Voleva solo aiutare la gente.
Carlsen disse, in tono comprensivo: — So cosa volete dire. — Era già arrivato alla conclusione che Armstrong era il tipo che adduceva alti principi morali per motivare decisioni dovute solo a pigrizia.
Lamson sospirò. — Non sono sicuro che abbiate capito.
— No? Per quale motivo credete che siamo venuti qui?
Lamson lo guardò, sorpreso, e Carlsen si rese conto che Lamson aveva frainteso la domanda. Volete dire che…
Bussarono alla porta, e si sentì la voce di Fallada. — Vieni a colazione, Olaf?
Lamson disse: — Be’, io devo andare. Ci vediamo dopo. — Si fece da parte per lasciar entrare Fallada, poi se ne andò.
— Ancora a letto? Vuoi che torni più tardi?
— No, vieni avanti. — Fallada chiuse la porta. — Ho parlato un momento con Lamson.
— Sembra un brav’uomo.
— Troppo. — Carlsen prese i suoi vestiti e passò in bagno lasciando la porta socchiusa. — Ieri sera è andato su a vedere Reeves, e credo che in qualche modo ci abbia traditi.
— Cosa te lo fa pensare?
Carlsen era restio a parlare di quello che gli era successo durante la notte, gli sembrava troppo personale. — Mi ha detto che questa mattina Reeves è tornato normale — disse.
— Normale?
— In uno stato di semi-imbecillità, come al solito.
Seguì un silenzio. Carlsen infilò la camicia nei pantaloni. Fallada chiese: — Quindi pensi che il vampiro si sia trasferito in qualcun altro?
— Così sembra.
Carlsen cominciò a radersi con il rasoio elettrico, e finché non ebbe finito, nessuno parlò. Quando uscì dal bagno, picchiettandosi le guance con la lozione dopobarba, Fallada stava guardando dalla finestra, assorto, le mani in tasca. — Dunque, quella creatura ci ha fatto perdere le sue tracce un’altra volta?
— Temo di sì.
— Potrebbe essere tornata nella ragazza, l’infermiera.
— È probabile. E avrà scoperto che sappiamo anche di Ellen.
— Adesso potrebbe essere dappertutto, qui dentro o fuori di qui.
Era una constatazione, non una domanda, e Carlsen trovò inutile rispondere. Piegò il pigiama e lo mise nella valigia. Fallada lo guardò con espressione pensosa.
— Potrei provare a ipnotizzarti un’altra volta.
— No.
— Perché?
— Per cominciare, è troppo pericoloso. Potrebbe tentare di trasferirsi dentro di me mentre sono sotto ipnosi. In secondo luogo, sarebbe inutile. Ho perso il contatto con lei.
— Ne sei certo?
— Certissimo.
Carlsen fu contento che Fallada smettesse di fare domande.
Sul prato, al sole, il sergente Parker sdraiato sulla schiena stava controllando i razzi di decollo della cavalletta.
— Non venite a colazione? — gli domandò Carlsen.
— Ho già mangiato col personale medico, grazie, Comandante.
— Avete visto la capo infermiera, Ellen Donaldson?
— Sì — rispose il pilota. — Mi ha fatto un mucchio di domande sul vostro conto.
— Che genere di domande?
— Be’, se siete sposato e roba del genere — disse Parker e strizzò un occhio.
— Grazie — disse Carlsen. Mentre si allontanavano, disse a Fallada: — Questo risponde alla tua domanda.
— In che modo?
— Se la Donaldson fosse ancora invasata dal vampiro, non farebbe domande. Cercherebbe di non farsi notare in nessun modo.
Fallada disse con aria pensosa: — È vero. — Poi sorrise. — Stai diventando una specie di Sherlock Holmes! — disse.
La sala da pranzo di Armstrong era inondata di sole. Heseltine era già seduto a tavola. Armstrong si stropicciò le mani. — Buongiorno — salutò. — È una magnifica giornata. Dormito bene?
Tutti e due fecero un mormorio affermativo.
Armstrong disse: — Lamson ha dato un tranquillante a Reeves. Nel caffè. Gli ho anche detto di preparare una iniezione leggermente ipnotica. Probabilmente è il modo più semplice, se volete fargli domande.
Fallada disse, soprappensiero: — Ottimo. Voi pensate sempre a tutto.
— Sono contento di essere utile. Proprio contento. — Gridò verso la cucina: — George, altro caffè per favore. — Era in piedi, vicino alla porta, e li guardava soddisfatto. — Ma prego, accomodatevi. Non aspettate me, io ho già fatto colazione. Adesso vado a fare il solito giro d’ispezione. George vi darà tutto quello che vi occorre. — Uscì, chiudendo la porta senza far rumore. Il giovane strabico, che ora indossava un camice bianco, portò un vassoio con caffè e fette di pompelmo.
Quando rimasero soli, Fallada disse: — Temo che sarà solo una perdita di tempo.
Heseltine alzò gli occhi. — Perché? — chiese.
— È soltanto un sospetto — disse Carlsen. — Ho parlato con Lamson. Mi ha detto che Reeves è cambiato di nuovo. Non sembra più attento come i giorni scorsi…
Era ancora riluttante a parlare di quello che gli era successo durante la notte.
Heseltine scosse la testa. — Allora, cosa consigliate?
Carlsen disse: — Continuiamo come avevamo deciso. Non farà danno interrogare questo Reeves.
Fallada disse: — Potrebbe essere ancora in contatto mentale con la aliena, come lo eri tu. Potrebbe persino dirci dov’è adesso.
— Può darsi — disse Carlsen, ma sapeva che non era così.
Il giovane in camice bianco portò uova e pancetta. Continuarono la colazione in silenzio. Carlsen sentiva che i suoi due compagni erano depressi all’idea che il loro progetto potesse fallire. Quanto a lui, i suoi sentimenti erano stranamente passivi e assopiti, come se la tensione degli ultimi giorni l’avesse esaurito.
Armstrong tornò mentre stavano finendo di mangiare. Era seguito da Lamson e da un altro infermiere.
— Avete mangiato abbastanza? Bene — disse. — Io comincio sempre la giornata con una colazione abbondante. — Armstrong indossava un camice bianco. E Carlsen notò che era di ottimo umore. Il direttore aggiunse: — Sono convinto che è questo il guaio dei nostri ricoverati.
Heseltine lo guardò sorpreso. — La prima colazione? — disse.
— O la mancanza della prima colazione. Non hanno mai preso l’abitudine di farla. Risultato: tensione nervosa, cattivo umore, ulcere, stress emotivo. Dico sul serio. Se volete diminuire la criminalità in Inghilterra, dovreste convincere tutti a fare un’abbondante colazione al mattino. — Posò una mano sulla spalla di Carlsen: — Vero, Comandante?
Carlsen disse: — Sono d’accordo. — Ora si rendeva conto che in lui c’era qualcosa di diverso: non riusciva più a leggere nella mente degli altri. Se n’era accorto quando Armstrong l’aveva toccato sulla spalla: il contatto era stato del tutto anonimo, e non gli aveva dato alcuna percezione.
Armstrong si stropicciò le mani. — Dunque, signori, siamo pronti per cominciare?
Tutti guardarono Carlsen, come se fosse sottinteso che la decisione toccava a lui. — Sì, certo — disse.
— Allora suggerirei che Lamson e io si entri per primi. Così Reeves crederà che si tratti di una normale visita di controllo. — Si rivolse a Fallada. — Controllo il suo livello di adrenalina durante i periodi di luna piena. Se sale troppo, c’è pericolo di panico psicopatico, e in tal caso gli somministriamo dei tranquillanti. — Si volse poi a Carlsen e a Heseltine: — Sarà forse meglio se non vi fate vedere finché non gli avremo fatto l’iniezione.