Lo seguirono lungo il corridoio e su per due rampe di scale. Carlsen trovò che il posto era deprimente. L’ospedale era stato costruito all’inizio del secolo, quando la percentuale dei malati mentali era aumentata in maniera impressionante. L’architettura era puramente funzionale. I muri di plastica, che una volta davano l’impressione di luce e aria, adesso erano sporchi e graffiati. Su ogni pianerottolo le porte metalliche tinte di verde perdevano la vernice a pezzi.
— Qui ci sono i padiglioni principali — disse Armstrong. — I malati in isolamento sono al piano superiore. Le loro stanze hanno pareti insonorizzate, in modo che gli altri non siano disturbati. Norton, volete aprire, per favore? — L’infermiere inserì le chiavi nelle due serrature e le girò simultaneamente. La porta si aprì senza far rumore. Le pareti del corridoio oltre la porta erano coperte con un mosaico di plastica che rappresentava un paesaggio montano. Armstrong disse: — Reeves è nella stanza in fondo.
Carlsen notò che evitava di dire cella.
La porta in fondo al corridoio si aprì e ne uscì Ellen Donaldson che richiuse con cura. Ebbe un’espressione di sorpresa nel vedere il gruppo di persone che avanzavano, e quando il suo sguardo incrociò quello di Carlsen, la donna impallidì. Mentre Armstrong le passava accanto, l’infermiera lo afferrò per una manica. — Posso parlarvi un momento, dottore? — chiese.
— Non adesso, signorina Donaldson. Abbiamo da fare — disse lui, e passò oltre.
— Ma si tratta di Reeves…
Armstrong si voltò di scatto: — Non adesso, ho detto. — Aveva parlato a voce bassa, ma con un tono aspro di comando. I due infermieri si scambiarono un’occhiata sorpresa. Senza dire altro, l’infermiera si allontanò.
Carlsen si aspettava che lei lo guardasse ancora, ma la donna se ne andò senza alzare gli occhi. Il suo comportamento lo lasciò perplesso. Non era la reazione di una capo infermiera congedata in modo irritante. Ellen sembrava sottomessa e senza risentimento.
Norton aprila porta, e si fece da parte per lasciar entrare Armstrong. Senza voltarsi il direttore fece un gesto perentorio con la mano, per ordinare agli altri di non avvicinarsi. Lamson stava riempiendo una siringa col liquido contenuto in un flaconcino.
In quel momento Carlsen comprese. Di colpo, senza il minimo dubbio, si rese conto che l’aliena si era impossessata di Armstrong. E nello stesso momento, con lo stesso processo mentale, intuì che cosa bisognava fare. Tese una mano verso Lamson, sorridendo. Lamson lo guardò sorpreso, ma gli cedette la siringa. Con un solo passo, Carlsen superò Norton. In quell’attimo, Armstrong stava chinandosi su un uomo disteso sul letto.
— Buon giorno, Reeves… — disse il direttore.
Prima che dicesse altro, Carlsen gli aveva passato il braccio sinistro intorno alla gola, e lo tirava all’indietro. Norton gridò qualcosa. Carlsen agì con estrema calma. Con una forza che lo meravigliò, si tirò la testa di Armstrong contro il petto, e, fissando la siringa, gliene iniettò il contenuto attraverso il tessuto del camice. Sentì il sussulto di Armstrong sotto la puntura. Poi, senza fretta, Carlsen premette lo stantuffo della siringa. Lamson era andato a mettersi in modo da vedere Carlsen in faccia. Quando i loro sguardi si incontrarono, Carlsen sorrise, con un cenno d’intesa. Sentiva di controllare perfettamente la situazione. Contò fino a dieci, e sentì che Armstrong si rilassava. Lasciò scivolare il corpo sul pavimento. Ma d’un tratto Armstrong si mosse. Si girò a faccia in giù e afferrò Carlsen per le gambe. Carlsen aveva previsto questa possibilità, e subito si lasciò cadere in ginocchio sulle spalle di Armstrong, immobilizzandolo al suolo. Contemporaneamente Lamson si era chinato ad afferrare le gambe di Armstrong. Per qualche secondo, Armstrong continuò a dibattersi, poi i suoi sforzi si indebolirono e cessarono. Quando Carlsen lo rigirò sulla schiena, aveva gli occhi vitrei.
Heseltine, con voce inaspettatamente calma, chiese: — Perché tutto questo?
Carlsen sorrise a Lamson. — Grazie per l’aiuto.
Lamson disse: — Avreste dovuto dirmelo. Avevo sempre pensato che ci fosse qualcosa di strano in lui.
— Non volevo correre rischi — disse Carlsen, poi si rivolse a Fallada e a Heseltine. — Portiamolo in una stanza vuota. Voglio interrogarlo prima che l’effetto dell’iniezione svanisca. — E chiese a Lamson: — Dove possiamo portarlo?
— Giù nel gabinetto medico, direi. Un momento. Vado a prendere una sedia a rotelle. — Tornò dopo pochi secondi con una sedia pieghevole, di tela. — Dacci una mano, Ken — disse all’altro infermiere.
Per la prima volta Carlsen guardò l’uomo disteso sul letto. Pareva che tutta quella confusione non l’avesse affatto scosso.
Fissava il soffitto, la faccia apatica. Era alto e robusto, ma con la pelle floscia e giallognola. Nonostante le spalle larghe e le mani enormi non dava l’impressione di essere un individuo pericoloso.
— Lo porto giù con l’ascensore — disse Lamson alludendo ad Armstrong. — Vi aspetto a pianterreno, in fondo alle scale.
Appena cominciato a scendere, Fallada chiese: — Che cos’è successo?
— Mi sono reso conto che il vampiro si era trasferito in Armstrong.
Heseltine chiese: — Ne siete sicuro?
— Sicurissimo. Avrei dovuto immaginarlo prima. Non so perché non ci abbia pensato. Armstrong era la più logica come prossima vittima. Mutevole, vanitoso, pieno di complessi sessuali.
— E Lamson come faceva a saperlo?
Carlsen rise: — Lamson non lo sapeva. Ma questa mattina gli ho detto qualcosa che lui ha frainteso. Sbagliando, ha pensato che sospettavamo Armstrong e che eravamo qui per lui. Inoltre detesta Armstrong.
— Come fai a sapere se la aliena è ancora dentro Armstrong? — chiese Fallada. — Cosa può impedirle di passare in un altro individuo?
Carlsen scosse la testa. — Finché Armstrong resta in stato di incoscienza, la aliena è in trappola, perché è soggetta alle stesse condizioni in cui si trova il corpo di Armstrong.
— Ne sei sicuro?
— No, ma mi sembra logico. Non credo che possa entrare e uscire da un corpo istantaneamente. È una faccenda molto più complessa… come entrare in una tuta spaziale, direi. Ci vuole tempo.
L’ascensore arrivò, e Lamson uscì dalla cabina spingendo la sedia a rotelle con Armstrong afflosciato sopra, la testa poggiata contro Lamson. Gli occhi erano ancora aperti.
— Da questa parte, signori. — Lamson li guidò nel locale attiguo all’appartamento di Armstrong. Era un piccolo gabinetto medico, con i soliti schedari, testi di medicina e raccolta rilegata del “British Medical Journal”. Carlsen chiese ai due infermieri di distendere Armstrong sul lettino. Poi tirò le tende e orientò la lampada da tavolo in modo che la luce cadesse negli occhi vitrei del direttore.
— Potete portarmi un’altra dose della stessa iniezione? — disse Carlsen.
Lamson lo guardò incerto. — Sì, ma… di solito un’iniezione è sufficiente — disse.
— Potrebbe servire. Quanto dura l’effetto?
— Una dose come questa, almeno due ore.
— Allora è probabile che ce ne serva un’altra.
Mentre i due infermieri uscivano, Heseltine disse loro con calma: — Preferiremmo se non ne diceste niente agli altri.
— Non preoccupatevi — disse Lamson. — Abbiamo capito.
Heseltine chiuse la porta a chiave. Fallada disse: — Non credi che una seconda dose sia pericolosa? Quelle iniezioni affaticano il cuore.
— Lo so. Ma quelle cose sono più forti di quello che credi. Potrebbe sfuggirci.
Carlsen si chinò su Armstrong e gli chiuse gli occhi. Prese dalla scrivania il piccolo microfono del registratore e lo mise in posizione su un tavolino di fianco alla testa di Armstrong. Poi controllò il volume di registrazione e premette un tasto. Si sedette sull’orlo del lettino chinandosi in modo da trovarsi con la bocca vicino all’orecchio di Armstrong.