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— Armstrong mi sentite?

Le palpebre vibrarono ma le labbra restarono immobili. Carlsen ripeté la domanda, aggiungendo: — Se mi sentite, dite sì.

Le labbra tremarono. Dopo una pausa Armstrong mormorò: — Sì.

— Sapete dove vi trovate?

Dovette ripetere la domanda.

Poi la faccia di Armstrong cominciò a imbronciarsi come quella di un bambino che sta per mettersi a piangere. Con voce stentata disse: — Non voglio stare qui. Voglio andare via. Hoyama. Lasciatemi andare… Lasciatemi andare.

La voce era appena udibile. Per alcuni secondi le labbra continuarono a muoversi, ma senza lasciar uscire alcun suono.

— Dove siete?

Passò più di un minuto senza che Armstrong rispondesse. Carlsen ripeté la domanda varie volte. Poi la voce di Amstrong disse: — Non mi permettono di parlare con voi.

— Chi non ve lo permette?

Nessuna risposta. Carlsen disse con impazienza: — Sentite Armstrong, se volete che vi aiutiamo a fuggire dovete dirci dove siete. Dove siete?

Agli angoli della bocca di Armstrong si formarono bolle di saliva. Il respiro diventò affannoso. Disse: — Sono qui… — poi le parole si confusero in un gorgoglio. Il corpo di Armstrong si contorse. Gridò. C’era un tale terrore in quelle grida che tutti ne rimasero sconvolti. I tre uomini cercarono di tenere fermo il corpo scosso da movimenti convulsi. Non fu semplice. Armstrong sembrava invasato da una forza selvaggia. Dopo un ultimo sussulto, giacque ansimante. Carlsen ed Heseltine lo tenevano per le braccia, e Fallada gli stava seduto sulle gambe.

— Armstrong, riuscite a vedere la cosa che vi tiene prigioniero? — domandò Carlsen.

— Sì. — Gli occhi, aperti adesso, erano dilatati e fissi come quelli di un cavallo imbizzarito.

— Dite a quella creatura che deve parlare con noi. Diteglielo!

Armstrong ebbe un violento sussulto e rotolò fin sull’orlo del lettino. Carlsen ed Heseltine lo respinsero indietro. Qualcuno bussò alla porta, interrompendoli.

— Chi è? — gridò Carlsen.

— Sono Lamson. Ho portato l’altra iniezione.

Fallada aprì la porta. — Grazie — disse.

— Sapete come si deve fare, vero? Bisogna aspettare che rinvenga, prima di iniettargliela.

— State tranquillo. Lo sappiamo — disse Fallada, e richiuse a chiave.

Armstrong era di nuovo immobile. Carlsen gli sbottonò la manica e la spinse in su a scoprire il grosso braccio peloso, ma la manica non andò oltre il gomito. Heseltine diede a Carlsen un paio di forbici chirurgiche prese dalla scrivania. Carlsen tagliò la manica dal polso alla spalla. Mentre prendeva la siringa, Armstrong si rizzò di colpo a sedere. Carlsen mise giù la siringa e lo riafferrò. Heseltine lo aiutò a rimetterlo sdraiato. Carlsen disse a Fallada: — Hans, fai tu l’iniezione.

Dalle labbra di Armstrong uscì una voce sconosciuta che li colpì per il calmo tono di autorità.

— Non ce n’è bisogno — disse la voce. — Se mi lasciate andare vi prometto di abbandonare la Terra.

Fallada esitò, tenendo la siringa in posizione.

Carlsen disse: — Avanti, fai l’iniezione. Sta mentendo. Se non iniettiamo il medicinale, fra pochi minuti si libererà.

Sentì i muscoli di Armstrong tendersi sotto le sue mani, e dovette ricorrere a tutta la sua forza per trattenere il corpo che si contorceva.

La voce parlò ancora. — Carlsen, mi deludete. Credevo che aveste capito — disse.

Carlsen resistette alla tentazione di farsi coinvolgere in un dialogo. Fece cenno a Fallada. — Avanti — gli disse.

Fallada affondò l’ago nella carne, poco sopra la goccia di sangue raggrumato dell’iniezione precedente, e premette lo stantuffo. Per più di un minuto rimasero a osservare la faccia di Armstrong. Poi il suo respiro si fece più profondo, gli occhi si offuscarono, e i muscoli si rilassarono.

Carlsen chiese: — Mi sentite?

Nessuna risposta. Heseltine disse: — Forse la dose è stata troppo forte.

Carlsen scosse la testa. Si avvicinò ancora di più all’orecchio di Armstrong. — Ascoltatemi. Se occorre, vi terremo in questo stato per giorni, per settimane. Avete capito? — disse.

— Sì. — Era la stessa voce di prima, ma più debole, ora, più bassa. La respirazione si fece irregolare e ansimante.

— Speriamo di non averlo ucciso — disse Fallada.

— Se è cosi, non possiamo farci niente. Anche il vampiro morirà. La sua morte vale bene la vita di Armstrong.

La aliena parlò con voce spessa: — Non potete distruggerci tutti.

Carlsen disse: — Possiamo provare. Possiamo mandare astronavi da guerra a distruggere il vostro veicolo spaziale. — Si chinò maggiormente. — E ci occuperemo in particolare di quei polipi gialli…

Sorpreso, Fallada guardò Carlsen ma non disse niente. Mentre osservavano Armstrong, questi chiuse gli occhi. La faccia perse consistenza, la carne parve afflosciarsi. Carlsen disse: — Abbiamo pronta un’altra iniezione. Rispondete alle mie domande, o iniettiamo di nuovo il medicinale?

La faccia restò immobile qualche secondo. Poi la voce disse: — Fate queste domande.

— Come vi chiamate?

— Non sapreste pronunciare il mio nome. Chiamatemi G’room.

— Siete maschio o femmina?

— Né l’uno né l’altra. Gli individui della nostra razza non sono divisi per sesso come da voi.

— Che razza è, la vostra? — chiese Heseltine.

— Voi ci chiamereste Nioth-Korghai. Le vostre corde vocali non possono pronunciare le nostre sillabe.

Fallada chiese: — Da dove venite?

— Da un pianeta della stella che voi chiamate Rigel. Non è visibile nemmeno ai vostri telescopi più potenti.

— Quanti anni avete?

— Secondo il vostro tempo terrestre, ho cinquantaduemila anni.

Heseltine e gli altri si guardarono sbalorditi. Carlsen chiese: — Tutti quelli della vostra razza vivono così a lungo?

— No. Soltanto noi, gli Ubbo-Sathia. Noi siamo quelli che voi chiamate vampiri.

Fallada stava prendendo appunti, nonostante il registratore. Chiese: — E gli altri Nioth-Korghai quanto vivono?

— Circa trecento dei vostri anni terrestri.

Heseltine chiese: — Come siete diventati vampiri?

— È una lunga storia, questa.

— Vorremmo lo stesso che ce la raccontaste. Continuate.

Il silenzio si protrasse per qualche minuto, tanto che Carlsen cominciò a dubitare che la creatura volesse rispondere. Finalmente la voce si fece sentire.

— Il nostro pianeta è completamente ricoperto d’acqua, e la nostra razza, come avete indovinato, ha la forma di quelle creature che voi chiamate polipi. Ma i vostri molluschi sono quasi privi di cervello. I Nioth-Korghai hanno un cervello sviluppatissimo e un sistema nervoso altrettanto ben sviluppato. Dato che i nostri corpi sono leggeri, possiamo sopportare pressioni enormi. Il nostro metabolismo dipende dai sali dell’elemento fluorina, che nei nostri mari esiste in abbondanza, come il cloruro di sodio abbonda nei vostri. Sul fondo dei nostri mari ci sono immense grotte naturali che sono diventate le nostre città. Sono molto più vaste delle caverne terrestri. Le più piccole raggiungono un’altezza di dieci chilometri.

“Quando il vostro pianeta era ancora nel periodo dei grandi rettili, la nostra civiltà era già altamente evoluta, ma per un aspetto molto importante la nostra civiltà era completamente diversa da quella terrestre. La mente umana si applica con piacere alla soluzione di difficili problemi tecnici. Il vostro ideale più nobile è la scienza. Invece, noi Nioth-Korghai, siamo interessati unicamente alle dottrine che voi definireste religione e filosofia. Ogni individuo, sul nostro pianeta, vuole comprendere l’universo, e alla fine diventarne parte, formare con esso un tutt’uno. Questo spiega perché la nostra razza non è divisa in sessi come qui sulla Terra. I vostri corpi trasmettono la scintilla vitale durante l’orgasmo che sì verifica al compimento dell’atto sessuale. Ma i Nioth-Korghai ricevono direttamente le energie dell’universo. Si innamorano dell’Universo, non l’uno dell’altro. E nei momenti di suprema contemplazione, concepiscono e vengono fecondati dall’energia vitale dell’universo.