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Carlsen fece un altro tentativo per muoversi, ma le loro tre volontà lo tenevano inchiodato alla poltrona con la durezza di corde metalliche. Si sentì debole, indifeso: un bambino nelle mani di adulti. Parlare gli costò uno sforzo.

— Sarebbe stupido uccidermi — disse. — Potreste usare il mio corpo, ma non ingannereste nessuno che mi conosca.

— Non sarà necessario. Vi chiediamo solo di fare l’intervista televisiva di questa sera. Ma dichiarerete che la “Stranger” venga portata immediatamente sulla Terra. Direte che sarebbe un errore aspettare ancora permettendo così che altri paesi se ne impossessino. Poi, io annuncerò di avervi affidato il comando della spedizione che porterà l’astronave sulla Terra, e che voi partirete domattina presto per la base lunare. Non vi chiediamo altro.

Carlsen rimase a fissarlo, combattendo la spossatezza e il profondo senso di sconfitta. La voce disse: — Decidete subito.

La ragazza disse: — Devo tentare di convincerlo? — E senza aspettare risposta, si sedette sulle ginocchia di Carlsen e gli spinse indietro la testa. Lo fece con freddezza come un’infermiera che prepara un paziente per un’operazione.

Non appena le mani di lei, fredde, lo toccarono, Carlsen si accorse che la sua energia vitale fluiva nella ragazza. Tenendogli le mani sulle orecchie, lei si chinò a premere la bocca sulla sua. Di nuovo lui provò l’incanto stupefatto, il desiderio di arrendersi, di lasciarle prendere possesso della sua volontà.

E quando la ragazza sentì che si era rilassato, gli mise le braccia intorno al collo, e le sue labbra si fecero avide.

Carlsen sentiva fiotti vitali d’energia sgorgare da lui come sangue da vene tagliate: la vita stava trasferendosi dal suo corpo a quello della ragazza. Quando tentò di muoversi, con un ultimo guizzo di ribellione, Carlsen sentì che le forze unite degli altri lo inchiodavano sulla poltrona. Poi, quando smise di resistere, il senso di impotenza si dissolse in un ardore di risposta.

Gli sembrò che fosse a causa dei movimenti della ragazza, che simulavano il ritmo dell’accoppiamento. Sentiva il calore del suo seno contro il petto, e avrebbe voluto alzare le mani e strapparle la camicetta dalle spalle. Il desiderio acquistò violenza, e Carlsen si accorse della sorpresa di lei nell’accorgersi che non era più passivo. In un lampo si rese conto che poteva servirsi della propria volontà per combatterla, serrandola, premendole la bocca con una forza che gli veniva dal proprio cervello. Senza muoversi, la teneva come un uccello tiene stretto un verme. E prese ad assorbire energia da lei, il corpo vibrante dal desiderio.

La voce di Armstrong disse: — Cosa stai facendo, Vraal? Non ucciderlo.

Carlsen rafforzò la stretta, abbandonandosi completamente al piacere di bere l’essenza dell’altro essere. L’intensità del contatto gli bruciava la carne.

Vide Jamieson afferrare Vraal per le spalle. Lui allentò la presa non appena la ragazza fu strappata via. Jamieson ci aveva messo una tale forza che lei finì contro la scrivania e cadde. Jamieson fece per parlare, poi vide la bocca tumefatta della ragazza e la sua espressione sconvolta ed esausta. Reagì istantaneamente. Si voltò verso Carlsen e la sua forza di volontà fu come un’esplosione. Avrebbe potuto annientare Carlsen lì sulla poltrona, mettendo fine alla sua resistenza con l’effetto di un proiettile nello stomaco. Ma la reazione di Carlsen fu ancora più veloce. Parò il colpo, evitandolo come avrebbe fatto un pugile sul ring, schivandolo di lato. Poi, prima che Jamieson potesse rimettersi dalla sorpresa, Carlsen rispose con la propria volontà, colpendo Jamieson nelle costole e scagliandolo contro la parete. Un movimento alla sua destra gli ricordò la presenza di Armstrong; e questa volta, prima di poter alzare le difese, ricevette il colpo che gli si abbatté su un lato della testa con la violenza di una mazzata. Infuriato per il dolore, rispose con più forza di quanta avrebbe voluto. La sua collera si abbatté su una spalla di Armstrong e gli spezzò l’osso come avrebbe fatto la zampata di un orso. Armstrong, buttato all’indietro, finì con la testa contro la parete, fece mezzo giro su se stesso e cadde sulle ginocchia, lo sguardo vacuo.

Intanto Jamieson si era rialzato. Sostenendosi alla scrivania, fissava Carlsen. L’occhio sinistro era semichiuso, e il sangue gli colava sulla faccia. Eppure, a dimostrazione della sua forza, la faccia non esprimeva né paura né sconfitta. In tono calmo, chiese: — Chi sei?

Carlsen stava per rispondere, ma si rese conto che era inutile: la domanda non era rivolta a lui. Una voce gli uscì dalle labbra, e in una lingua straniera, che lui però capiva, disse: — Vengo da Karthis.

Quella era la lingua dei Nioth-Korghai.

Jamieson mise una mano in tasca, ne tolse un fazzoletto bianco e si asciugò il sangue. Con voce calma e piatta, chiese: — Che cosa vuoi?

— Dovresti saperlo — risposero le labbra di Carlsen.

Mentre parlava, Carlsen si accorse che il vampiro, che aveva invasato la ragazza, stava staccandosi dal suo corpo. Anche se lui stava guardando da un’altra parte, un sesto senso lo rese conscio del fatto che il vampiro si spostava verso la finestra.

Disse: — Non puoi sfuggire, Vraal. Abbiamo impiegato mille anni per trovarti. Non ti permetteremo di andartene ancora. — L’afferrò e la costrinse a tornare in mezzo alla stanza. Heseltine e Fallada fissarono sbalorditi la trasparente forma violacea visibile ora sullo sfondo della parete. Brillava leggermente nella luce e l’energia di cui era composta vibrava con un effetto di volute di fumo.

Carlsen si rivolse a Fallada. — Mi scuso per aver parlato in una lingua straniera — disse. — Nella nostra forma naturale noi comunichiamo solo col pensiero, ma possiamo ancora servirci dell’antica lingua dei Nioth-Korghai.

Fallada disse: — Non capisco… Sei…

Carlsen capì la domanda inespressa.

— Sono un abitante di Karthis, un pianeta del sole che voi chiamate Rigel. Sto servendomi del corpo del vostro amico Carlsen, il quale è pienamente conscio di quello che sta succedendo. Si può dire che l’ho preso in prestito.

Guardò Armstrong, che stava puntellandosi per mettersi seduto. Poi guardò Jamieson. — Andiamo — disse. — È ora di partire.

Fallada ed Heseltine osservarono esterrefatti una nuova forma, leggera, trasparente, color porpora, staccarsi dal corpo di Carlsen.

Aveva più consistenza di quella dell’altro alieno: sembrava un insieme di punti luminosi.

Carlsen provò una sensazione improvvisa di debolezza, come se avesse perso sangue in abbondanza.

La luce color porpora aleggiava al centro della stanza, con una intensità dolorosa per gli occhi. Poi, mentre Carlsen guardava, sagome ondeggianti si staccarono dai corpi di Armstrong e di Jamieson, appena visibili, nel riflesso luminoso del loro catturatore. Armstrong si afflosciò su un fianco; la bocca aperta. Jamieson cadde pesantemente sulla poltrona dietro la scrivania, fissando la ragazza con espressione perplessa, come se la sua presenza lì gli fosse incomprensibile.

Guardando le luminose forme purpuree, visibili come onde di calore, Carlsen provò un’emozione più profonda di qualsiasi mai provata. Una specie di rispetto misto a una infinita pietà. Per la prima volta comprese chiaramente il tormento e la disperazione che avevano spinto quelle creature a compiere incursioni fra le galassie in cerca di energia vitale. Ora poteva sentire tutta la solitudine degli esseri tormentati dal terrore della totale estinzione. Davanti a questa realtà, la sua vita gli parve improvvisamente un cumulo di volgari banalità. Gli parve che ogni momento della sua vita, fin dalla nascita, fosse stato vissuto in una specie di insipido sogno a occhi aperti. Questa percezione gli diede il coraggio che nasce dalla collera. Si alzò e avanzando verso la luce più forte gridò: — Non ucciderli. Lasciali liberi.

Mentre gridava queste parole, gli parve assurdo come cercare di comunicare con una montagna. Ma un attimo dopo udì chiaramente una voce che diceva: — Lo sai che cosa chiedi? — Ma le parole non erano state dette: lui aveva captato un messaggio mentale.