Выбрать главу

Adesso Carlsen era interessato meno alle parole che al potere che le accompagnava: una specie di corrente elettrica che lo percorreva generando visioni che gli davano un godimento spietato. Gli esseri umani erano volgari, irrimediabilmente volgari e banali. Erano meschini, egoisti, pigri, stupidi, disonesti. Erano una razza di smidollati dal cervello debole, poco più che imbecilli. Se l’estinzione dei deboli e la sopravvivenza dei forti era legge di natura, allora gli esseri umani meritavano di essere distrutti. La loro essenza era quella di vittime predestinate.

Heseltine si schiarì la voce. — Ma… la crudeltà nasce dalla debolezza non dalla forza — disse. Aveva parlato esitando, senza convinzione.

Il vampiro rispose: — Nessuno che non abbia conosciuto la disperazione totale ha il diritto di parlare di debolezza o di forza. Riuscite a immaginare cosa significhi dover lottare per mille anni contro la possibilità di estinzione? E dopo questi mille anni noi non vedemmo più alcun motivo per accettare la morte mentre esisteva per noi ancora una speranza di vita. Volete condannarci per questo?

La voce si era rivolta a Heseltine e Fallada, ma fu Jamieson a rispondere.

— Vi siete condannati da soli — disse. — Avete dichiarato che uccidere è una legge di natura. Voi intendevate ucciderci. Esiste forse qualche motivo perché noi invece non dovremmo uccidervi?

— Non mi aspetterei altro da voi, se aveste il potere di ucciderci. — Nessun sarcasmo nella voce. — Ma i Nioth-Korghai non credono che l’omicidio risponda a una legge di natura. Loro credono in leggi superiori. — Ripiegò un poco la testa all’indietro, senza però guardare direttamente alla sfera di luce. — Ecco perché voglio sapere che cosa intendete voi fare di noi.

E di nuovo l’altra voce comunicò senza parole. — Questo verrà deciso su Karthis — disse.

— Non possiamo tornare su Karthis, a meno che ci diate energia di trasformazione.

— Vi sarà data.

— Quando?

— Adesso se volete.

Carlsen sentì una esplosione di incredulità e di gioia, che cessò un attimo dopo, quando l’alieno lasciò il suo corpo. Cercò di guardare la luce, ma lo splendore gli feriva gli occhi. Notò l’espressione di dolore sul viso di Heseltine, poi si coprì la faccia con le mani. Non servì a niente: pareva che la luce fosse dentro di lui e lo riempisse di gioia e di terrore. Si rendeva conto che l’energia si sprigionava sì dalla creatura ferma al centro della stanza, ma veniva anche da un’altra fonte universale.

Questo lo colpì come una rivelazione. I normali confini della sua mente si erano dissolti. Capì improvvisamente che tutta la scienza umana è di seconda mano e senza contenuti reali. Adesso poteva vedere sprazzi di realtà vera, e l’estasi che gliene derivava era quasi insopportabile. La sua paura era mitigata dalla consapevolezza di essere solo uno spettatore: quella forza era destinata ai tre alieni. Aprì gli occhi e guardò i vampiri. Stavano assorbendo energia, la ingoiavano, se ne avvolgevano. E l’energia affluiva in loro, la loro forma si consolidava, il colore si faceva più intenso, il profilo si precisava, e alla fine somigliarono a corpi materiali, impregnati di fumo in movimento. Mentre li guardava, loro cessarono di assorbire energia, e cominciarono invece a irradiarne come l’essere al centro della stanza. Durò un attimo, e chiazze di oscurità si formarono nella luce. Poi Carlsen capì. Voleva gridare un avvertimento, voleva consigliargli di tornare indietro, di ricominciare tutto da capo. E poi, con una rapidità che lo lasciò impietrito, svanirono. Fu come se tre lampadine elettriche si fossero bruciate simultaneamente.

La stanza diventò quasi buia e stranamente silenziosa. La voce di Fallada disse: — Che cos’è successo?

Carlsen fu sorpreso che lo scienziato potesse parlare.

Jamieson gridò: — Aspettate. Non andatevene ancora! — Carlsen alzò lo sguardo, e capì perché la stanza diventava sempre più buia. Anche se restava sospeso nello stesso punto, il Nioth-Korghai dava l’impressione di retrocedere.

Carlsen ebbe la sensazione di una grande perdita. Era la realtà che sbiadiva in distanza e il suo pensiero cercò di trattenerla. Ma capì che era impossibile: la missione terrestre della creatura era compiuta. Mentre gli uomini lo guardavano, lui si ridusse a un punto lucente, sbiadì come una minuscola stella nel cielo dell’alga, poi svanì.

Subito la stanza fu fredda e triste, come in un crepuscolo nevoso. L’irrealtà simile a un sogno, che lui aveva sempre considerata normale consapevolezza, era tornata.

Jamieson fece un lungo sospiro di sollievo e toccò un pulsante sulla scrivania. Le finestre si aprirono automaticamente. Il rumore del traffico di Whitehall riempì la stanza portato dall’aria calda che odorava d’estate. Per qualche minuto nessuno osò parlare. Heseltine si era abbandonato contro la spalliera della poltrona, a occhi chiusi. Fallada era curvo in avanti, il mento che gli toccava il petto, ma teneva gli occhi aperti. La ragazza si era accasciata su una sedia in un angolo, e respirava affannosamente.

Carlsen chiuse gli occhi e smise di resistere alla stanchezza. E subito percepì una eccitazione sessuale unita alla visione di gambe nude.

Aprì gli occhi e vide Armstrong intento a guardare la ragazza, semisdraiata con le ginocchia leggermente staccate, e la gonna sollevata sulle cosce.

Carlsen richiuse gli occhi. Non c’era dubbio: era collegato mentalmente all’eccitazione di Armstrong, ne intuiva i pensieri. Spostò la sua attenzione sulla ragazza e seppe che dormiva. La sua mente afferrò le immagini confuse di un sogno.

Spostò la mente sul Primo Ministro. Era meno esausto di quanto pretendeva di essere. Jamieson possedeva notevoli forze di riserva, e la dura, irragionevole testardaggine di chi ama il potere. Stava guardando Carlsen e Fallada, chiedendosi come poteva convincerli a mantenere il silenzio.

L’apparecchio di comunicazione interna suonò. Jamieson rispose, e nella sua voce si sentì una nota di isterismo. La voce del segretario disse: — Il Ministro dei Lavori Pubblici, signor Jamieson.

Il Primo Ministro rispose: — Non adesso, per l’amor del cielo. — Fece uno sforzo per controllarsi. — Inventate qualche scusa, Morton. Dite che ho un caso di emergenza.

— Va bene, signore.

Jamieson si raddrizzò sulla poltrona, guardò gli altri, si schiarì la voce, e disse: — Non so voi, ma io ho bisogno di un whisky. — Aveva la faccia di chi ha appena finito di star male. Carlsen lo osservava attentamente: sapeva che stava recitando. Per Jamieson, era normale nascondere i suoi pensieri.

— Merriol — disse alla ragazza — portateci del whisky, per favore.

Carlsen sentì anche la delusione di Armstrong quando la ragazza si riscosse e tirò giù la gonna.

Armstrong rise nervosamente. — Non ne ho mai avuto tanto bisogno in vita mia.

Jamieson fece un cenno d’approvazione. — Vi siete comportato in modo ammirevole, caro amico.

Armstrong accettò il complimento con modestia. — Grazie, signor Primo Ministro — disse.

Carlsen incontrò lo sguardo di Fallada. Tutti e due sapevano quello che stava accadendo. La situazione anomala richiedeva reazioni che esulavano dalla normalità quotidiana. Jamieson e Armstrong stavano “normalizzandola”.

La ragazza posò sulla scrivania il vassoio con bottiglia e bicchieri. Jamieson versò il whisky in sei bicchieri, senza vergognarsi del tremolio delle mani. Poi alzò il suo, lo vuotò d’un sorso, e lo rimise sul vassoio respirando forte.

Carlsen prese un bicchiere, e lo portò alle labbra. Qualche goccia gli cadde sui pantaloni. Il whisky aveva un sapore aspro, insolito, gli parve petrolio. Pensò di non avere ancora perso interamente il senso di una realtà diversa e più profonda.

Era come sdoppiato, e la tensione fra i suoi due “io” gli dava il potere di combattere contro il sogno.