Quando si svegliò vide Steinberg vicino alla porta. Si rizzò a sedere. — Quanto ho dormito? — chiese.
— Sette ore. Avevi l’aria così stanca che abbiamo deciso di non svegliarti.
— È successo qualcosa nel frattempo?
— Quattro uomini sono appena rientrati. Sono riusciti ad aprire una di quelle tombe.
— Oh, Cristo, e perché? Non potevate aspettare che mi svegliassi?
— Ordine di Zelensky.
— Qui gli ordini li do io, fin che sono il Comandante.
Steinberg sembrò spiacente. — Abbiamo creduto che ti avrebbe fatto piacere. Hanno tagliato un’apertura in una di quelle tombe. Sono sotto vuoto. Il corpo non si è polverizzato, e non dovrebbe esserci problema a metterlo nella cella frigorifera.
Cinque minuti dopo, fregandosi gli occhi ancora assonnati, Carlsen scese nella cabina di comando. Dall’oblò poteva vedere il chiarore verdazzurro che ricordava benissimo. La “Hermes” era riuscita a spostarsi fino allo squarcio che si apriva nell’area dove c’erano i cubi di cristallo, e dall’oblò adesso si potevano vedere abbastanza chiaramente le tombe degli umanoidi.
Dabrowsky disse: — Dave Steinberg te l’ha detto che non è vetro?
— Che cos’è?
— Metallo. Un metallo trasparente. Abbiamo messo la lastra asportata nella camera di decontaminazione, e pare che non sia radioattiva. Niente radioattività neanche nella tomba. Dev’essere un materiale che serve da schermo contro le radiazioni.
— Come siete riusciti a tagliarlo?
— Col laser… un taglio perfetto.
Carlsen disse in tono irritato: — Un’altra volta aspettate i miei ordini! — Troncò ogni replica con un gesto. — Intendevo chiamare la base lunare e consigliare di lasciare le tombe intatte fino a una prossima spedizione. Supponiamo che quegli esseri siano in stato di animazione sospesa, supponiamo che li abbiate uccisi…
— Be’… ce ne sono altri ventinove… — disse Murchison.
— Non è questo il punto. Avete forse distrutto una vita solo perché quei pazzi sulla Terra ignorano il significato della parola pazienza. Sarebbero bastati pochi mesi per mandare qui una spedizione equipaggiata in modo idoneo. L’astronave avrebbe potuto essere rimorchiata fino alla Terra, messa in orbita, e poi studiata per anni. Invece…
Dabrowsky l’interruppe. — Scusa, Comandante, ma è un po’ colpa tua. Li hai resi tu tanto curiosi, parlando di giganti.
— Giganti? — Carlsen aveva dimenticato quello che aveva detto.
— Hai detto che l’astronave sembrava costruita da giganti, e ieri sera sulla Terra tutti l’hanno sentito alla televisione. Esploratori scoprono un’astronave costruita da giganti.
— Oh, Cristo!
— Quindi puoi immaginare la curiosità. Tutti ad aspettare notizie dei giganti. Un’astronave lunga ottanta chilometri costruita da uomini alti cento metri… Sono impazienti di sapere il seguito!
Carlsen guardava dall’oblò con aria cupa. Prese distrattamente una tazza di caffè, ne bevve un sorso, e disse: — Sarà meglio che vada a dare un’occhiata.
Dieci minuti dopo si trovava nella tomba già aperta. Era quella che conteneva l’uomo. Avevano tolto il lenzuolo di tela grezza, tagliandolo. L’uomo, nudo, era fissato al letto con cinghie metalliche. La carne era come ritirata e fredda. Quando la sfiorò appena con l’indice guantato, vibrò come gelatina. L’uomo aveva gli occhi spalancati, vitrei. Carlsen provò a chiudergliene uno, ma la palpebra riscattò indietro.
— Curioso — disse Carlsen.
Dalla “Hermes” Craigie chiese: — Cosa c’è?
— La pelle sembra ancora elastica. — Carlsen guardò le gambe nude, magre, i piedi, le vene azzurrognole in rilievo.
— Come si possono togliere queste cinghie?
— Tagliamole col laser — propose Murchison, che stava alle sue spalle.
— Bene. Proviamo.
Il raggio rosso cupo guizzò dal laser portatile, ma prima che Murchison potesse dirigerlo verso il letto, le cinghie metalliche scattarono e si ritrassero rientrando in fessure nell’orlo del letto.
— Cos’hai fatto? — chiese Carlsen.
— Niente! Non ho nemmeno avuto il tempo di toccarle.
Carlsen mise una mano guantata sotto le gambe dell’uomo e le sollevò. Restarono così, in posizione verticale, ad angolo col corpo, che adesso era sollevato a mezz’aria, la testa un po’ staccata dal rotolo di tela che serviva da cuscino.
Carlsen si volse a Steinberg e Ives che stavano aspettando vicino all’apertura. — Venite a prenderlo.
Misero il corpo in uno di quei grossi astucci di alluminio. Nell’inventario di bordo quei recipienti a forma di sigaro, con due maniglie, simili a una lunga e stretta sacca da viaggio, erano elencati sotto la definizione “contenitori per campioni”. Ma tutti sapevano che servivano da bara per chi moriva nello spazio. Il cadavere di Dixon, il geologo, era stato messo in uno di quei tubi, dopo l’incidente sull’asteroide Hidalgo.
Quando Ives e Steinberg se ne furono andati con il loro carico, Carlsen osservò attentamente tutta la superficie del letto. Era una semplice lastra metallica, senza traccia di pulsanti, leve, o molle. Anche sotto era perfettamente liscia.
Murchison disse: — Forse il meccanismo è azionato dal pensiero.
— Lo scopriremo provando con gli altri — disse Carlsen.
Passarono mezz’ora a osservare e fotografare la tomba ma non scoprirono niente di importante. Tutto sembrava puramente funzionale.
Carlsen osservò con interesse l’operazione del taglio di una parete del secondo cubo. L’analisi spettrografica rivelò che si trattava di una lega sconosciuta, ma il carattere molecolare era tipicamente metallico. Per tutto il resto sembrava vetro. La lastra aveva lo spessore di sette centimetri. Si era chiesto perché Murchison avesse tagliato un’apertura relativamente piccola nel primo cubo. Adesso capì perché. La lega metallica opponeva una notevole resistenza al raggio laser che normalmente poteva tagliare una spessa lastra d’acciaio come se fosse formaggio. Ci vollero più di venti minuti per tagliare una lastra larga sessanta centimetri e alta un metro e venti.
Quella tomba conteneva la ragazza bruna.
Carlsen fece fare le necessarie analisi per rilevare la presenza di virus spaziali e della radioattività, poi entrò. Si accostò al letto, con il suo tagliente coltello lacerò il lenzuolo nel punto in cui si fondeva col metallo del letto, e buttò indietro il telo.
La ragazza giaceva allungata come su una lastra d’obitorio, i piedi uniti. I seni, non schiacciati dalla gravità, erano eretti come se fossero sostenuti da un reggiseno.
— Incredibile — disse Murchison. — Sembra viva.
Era vero. Il corpo non aveva affatto le caratteristiche di un cadavere.
— Potrebbe essere effetto della pressione sanguigna. Se l’hanno messa qui subito dopo la morte, la pressione può essere stata sufficiente a gonfiare un po’ il corpo immerso nel vuoto.
— Comincio col laser o proviamo il comando mentale? — chiese Murchison. L’impazienza evidente nel suo tono fece sorridere Carlsen.
— Proviamo — disse senza staccare gli occhi dalla ragazza. E mentre parlava, le cinghie metalliche si ritrassero di scatto, lasciando lievi impronte sulla pelle nuda del ventre e delle cosce.
— Deve trattarsi di una forma di controllo mentale. Vediamo se è possibile farle richiudere.
Carlsen fissò il letto, concentrandosi, ma le cinghie non riscattarono fuori. Si voltò allora, e fece cenno a Steinberg e a Ives che erano tornati e aspettavano con un altro contenitore.
— Bene. Ora potete portarla in cella frigorifera.
Steinberg disse: — Se non c’è più posto può dormire nel mio letto finché non saremo sulla Terra.
Carlsen sorrise: — Temo che la troverai un po’ frigida — disse. Poi si rivolse a Murchison. — Rientriamo, adesso.