Mio padre l’interruppe: — Ma se avessero compreso il vero significato della loro scoperta, questo li avrebbe resi immortali?
— No, perché non erano arrivati alla conclusione che la soluzione giusta si trova nell’inversione del tempo. Me ne sarei dovuto accorgere anch’io, quel giorno in Downing Street… (Qui, evidentemente, Carlsen si rivolgeva solo a Fallada). Tutta quell’energia che scorreva dal Nioth-Korghai… (Le parole si fecero inintelligibili a causa di rumori di fondo).
Fallada chiese: — Ma allora, perché i Nioth-Korghai erano mortali?
— Perché avevano seguito una linea evolutiva che comportava l’abbandono dei loro corpi, e questo li rendeva soggetti al tempo assoluto. Il nostro corpo, invece, ci protegge dal tempo assoluto. Il che significa che abbiamo meno libertà di movimento, ma maggior possibilità di controllo. Il nostro tempo fisico può essere invertito. Non permanentemente, è logico, ma per un attimo, come una diga ferma l’acqua di un ruscello, o come il vento trattiene la marea…
— Questa, allora, sostituisce la mia teoria del vampirismo? — chiese Fallada.
— Al contrario, la completa!
— Ma che prove ne abbiamo? — Questo era mio padre. — Come possiamo ottenere l’inversione del tempo?
E Carlsen rispose: — Io l’ho fatto.
A questo punto, mentre tutti probabilmente si aspetteranno che qualcuno dei presenti bombardasse Carlsen di domande, mia madre chiese: — Facciamo un altro caffè? — E mia sorella rispose: — Lo faccio io…
Poi la conversazione tornò sul vampirismo e la “vittimologia”, che era il titolo dell’ultimo libro di von Geijerstam, e il nastro finì.
Questa fu l’unica occasione in cui parlai a Carlsen. Dopo la decisione della Corte Mondiale di difendere la sua intimità dai giornalisti, Carlsen tornò a Storavan.
Cinque anni dopo gli scrissi, rammentandogli quella serata passata a casa nostra e chiedendogli se potevo andare a trovarlo.
Lui rispose, con gentilezza ma fermamente, che le sue ricerche erano arrivate a un punto cruciale e che per parecchio tempo non avrebbe potuto ricevere visite.
Lo rividi soltanto un’altra volta: nella sua bara.
Arrivai a Stoccolma il giorno dopo l’annuncio della sua morte e subito noleggiai un elicottero per raggiungere Storavan.
La terza moglie di Carlsen, Violetta, mi accolse con molta cortesia, ma mi disse che non poteva ospitarmi. Mi invitò però a cena, quella stessa sera (la famiglia di Carlsen mi parve numerosissima) e poi mi condusse nel mausoleo dietro la cappella, che in pratica era una stanza ottagonale contenente un certo numero di sarcofagi di pietra. A quanto mi venne detto si trattava delle tombe degli antenati di von Geijerstam. (Nota dell’Editore: l’autore qui non ricorda esattamente, poiché in realtà i sarcofagi erano quelli degli antenati della famiglia de la Gardie).
Il cadavere di von Geijerstam non era con gli altri. Come ultimo desiderio aveva chiesto di essere sepolto in mezzo al lago, in una bara di granito.
Al centro del locale c’erano quattro sarcofagi di rame. La signora Carlsen mi disse che uno di essi conteneva le ceneri del Conte Magnus, l’amante della Regina Cristina. Vicino, su un piedestallo di pietra, c’era il sarcofago di Olaf Carlsen. Il coperchio era scostato, in maniera che la faccia fosse visibile. Notai con meraviglia che non sembrava più vecchio di quando l’avevo visto. Anzi, sembrava più giovane. Gli posai la mano sulla fronte abbronzata. Era fredda e cedevole, ma la bocca sembrava normale, come se fosse solo addormentato. Mi feci coraggio e chiesi alla signora Carlsen se il medico gli aveva fatto un esame lambda. Lei disse di sì, e aggiunse che l’esame aveva dimostrato l’arresto totale del metabolismo.
La signora Carlsen, che era cattolica, s’inginocchiò per pregare. M’inginocchiai anch’io, per rispetto, ma sentendomi a disagio e, in un certo senso, ipocrita. La pietra era fredda, e dopo due o tre minuti cominciai anche a sentirmi fuori posto, come mi capitava da bambino nella nostra chiesa episcopale. La signora Carlsen sembrava così assorta che non osavo muovermi. Misi una mano sul piedestallo e mi protesi in avanti a guardare la faccia di Carlsen. E subito, mentre lo guardavo, mi sentii invadere da una strana calma. E insieme provai un assurdo senso di gioia, che mi fece venire le lacrime agli occhi. Non posso descrivere quella sensazione, posso soltanto annotarla. Avevo la certezza che quel posto avesse un che di soprannaturale, un influsso di bene. Il senso di pace era talmente profondo che il tempo sembrava avesse smesso di scorrere. Rimasi inginocchiato là per più di mezz’ora, eppure non mi sentii più né a disagio, né scomodo.
Quando la signora Carlsen chiuse la porta della cappella, dissi: — Non riesco a credere che sia morto.
Lei non disse niente, ma mi sembrò che mi guardasse in un modo strano.