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— No — disse l’ex arcimago, con un’occhiata in tralice sarcastica. — E sì.

— Ma… — Alder non sapeva esprimere la propria indignazione.

— Sanno che non ho alcun potere stregonesco, ma c’è qualcosa di misterioso in me. Sanno che vivo con una forestiera, una donna kargica. Sanno che la ragazza che chiamiamo nostra figlia è una specie di strega, ma peggio, perché ha la faccia e la mano bruciate dal fuoco, e perché lei stessa ha bruciato il signore di Re Albi, o lo ha spinto giù dalla scogliera, o lo ha ucciso con il malocchio… le loro storie variano. Onorano la casa in cui viviamo, però, perché era la casa di Aihal e di Heleth, e i maghi morti sono buoni maghi… Tu sei un cittadino, Alder, di un’isola del regno di Morred. Un villaggio di Gont è ben altro discorso.

— Ma perché resti qui, signore? Il re sicuramente ti onorerebbe come meriti…

— Non voglio nessun onore — disse il vegliardo, con una veemenza che tacitò del tutto Alder.

Continuarono a camminare. Quando giunsero alla casa costruita sull’orlo della scogliera, Sparviere parlò di nuovo. — Questo è il mio rifugio, il mio nido d’aquila — disse.

Bevvero un bicchiere di vino rosso a cena, e un altro seduti all’esterno a osservare il tramonto. Non chiacchierarono molto. La paura della notte, del sogno, si stava impossessando del giovane.

— Non sono un guaritore — disse il più anziano — ma forse posso fare ciò che ha fatto il maestro erborista per permetterti di dormire.

L’altro lo fissò con aria interrogativa.

— Ho riflettuto, e penso che forse non sia stato affatto un incantesimo a tenerti lontano da quella collina, ma il semplice tocco di una mano viva. Se vuoi, possiamo provare.

Alder protestò, ma Sparviere ribatté: — Tanto, molto spesso trascorro sveglio la metà delle ore notturne. — Così, quella notte, l’ospite si coricò nel letto basso in fondo alla grande stanza, e il padrone di casa gli si sedette accanto, osservando il fuoco e sonnecchiando.

Osservò anche il giovane, e alla fine lo vide addormentarsi; e poco dopo vide che cominciava a tremare nel sonno. Allungò la mano e là mise sulla sua spalla. Il dormiente si agitò un poco, sospirò, si rilassò, e continuò a dormire.

Per Sparviere fu una soddisfazione poter fare almeno quello. Efficace come un mago, si disse con lieve sarcasmo.

Non aveva sonno; la tensione non lo aveva abbandonato. Pensò a tutto quello che Alder gli aveva detto, e a quello di cui avevano parlato nel pomeriggio. Lo rivide sul sentiero accanto al campetto di cavoli intento a recitare la formula per chiamare le capre, e l’altezzosa indifferenza delle capre alle parole prive di potere. Ricordò che un tempo pronunciava il nome dello sparviere, del falco palustre, dell’aquila grigia, chiamandoli a sé dal cielo in un battito impetuoso di ali perché gli ghermissero il braccio con artigli di ferro e lo fissassero negli occhi con torvi occhi dorati… Tutto finito, ormai. Poteva vantarsi, chiamando quella casa il suo nido d’aquila, ma non aveva ali.

Però Tehanu le aveva. Aveva ali di drago su cui volare.

Il fuoco si era spento. Sparviere si strinse nella pelle di pecora, appoggiando la testa al muro, tenendo sempre la mano sulla spalla calda e inerte di Alder. Provava simpatia per lui, e gli dispiaceva che si trovasse in quella situazione.

Doveva ricordarsi di chiedergli di aggiustare la brocca verde, l’indomani.

L’erba vicino al muro era bassa, secca, morta. Non spirava alcun vento che la facesse muovere o frusciare.

Si destò con un sussulto, alzandosi in parte dalla sedia e, dopo un istante di smarrimento, posò di nuovo la mano sulla spalla del giovane, la strinse piano, e mormorò: — Hara! Vieni via, Hara. — Alder rabbrividì, poi si rilassò. Sospirò ancora, si girò sul ventre e rimase immobile.

L’anziano tenne la mano sulla spalla del dormiente. Come aveva fatto, lui, ad arrivare là, al muro di pietra? Non aveva più il potere per andare in quel luogo. Per lui era impossibile trovare la via. Com’era successo la notte precedente, il sogno o la visione di Alder, la sua anima viaggiatrice, lo aveva portato con sé ai margini della terra tenebrosa.

Adesso Sparviere era completamente sveglio. Restò seduto a osservare il riquadro grigiastro della finestra sul lato ovest, piena di stelle.

L’erba sotto il muro… Non cresceva più in basso, dove la collina diventava piana, la piana di quella terra fosca e arida. Aveva detto al giovane che laggiù c’era solo polvere, solo roccia. Vide quella polvere nera, roccia nera. Alvei di torrenti morti dove non scorreva mai acqua. Nessun essere vivente. Nessun uccello, nessun topo selvatico timoroso, nessuno scintillio e ronzio di piccoli insetti, le creature del sole. Solo i morti, con i loro occhi vacui e le facce silenziose.

Ma gli uccelli non morivano?

Un topo, un moscerino, una capra… una capra bianca e marrone, svelta, sfacciata, con gli occhi gialli, Sippy, la capra prediletta di Tehanu morta l’inverno scorso a una veneranda età… dov’era Sippy?

Non nella terra tenebrosa. Era morta, ma non era là. Era dov’era giusto che fosse, nel terreno. Nel terreno, nella luce, nel vento, nell’acqua che sprizzava dalla roccia, nell’occhio giallo del sole.

Allora perché, perché?…

Osservò Alder che riparava la brocca. Panciuta, verde giada, era uno degli oggetti preferiti di Tenar, che l’aveva portata da Oak Farm anni addietro. Gli era scivolata di mano l’altro giorno, mentre la prendeva dalla mensola. Sparviere aveva raccolto i due grossi pezzi e i minuscoli frammenti, riproponendosi di incollarli, perché la brocca potesse fare bella mostra come ornamento, anche se non sarebbe più stato possibile usarla. Ogni volta che vedeva i cocci, che aveva riposto in un cestino, pensando a quanto era stato maldestro, si arrabbiava con se stesso.

Ora, affascinato, guardava le mani del giovane. Snelle, forti, abili, senza fretta, quelle mani cullavano la forma della brocca, lisciando e incastrando e sistemando i cocci di terracotta, esortando e accarezzando, i pollici che blandivano e guidavano i frammenti più piccoli fino a farli combaciare, riunendoli, rassicurandoli. Mentre lavorava, mormorava una cantilena di due parole. Erano parole della Vecchia lingua. Ged lo sapeva, ma non conosceva il loro significato. Il volto di Alder era sereno, completamente privo di tensione e di angoscia: un volto così assorto nel lavoro da sprigionare una calma eterna.

Le mani si separarono dalla brocca, staccandosi dall’oggetto e aprendosi come un fiore che sbocciasse. Sul tavolo di quercia, la brocca era intatta.

Alder la guardò in silenzio, contento.

Quando il vecchio lo ringraziò, l’altro disse: — Non è stato difficile. Le rotture erano nette. È un oggetto ben fatto, e buona terracotta. Sono i lavori scadenti quelli difficili da riparare.

— Ho pensato a un metodo che potrebbe aiutarti a dormire in pace — annunciò Ged.

Si era svegliato ai primi albori del giorno e si era alzato, in modo che il vegliardo potesse andare nel proprio letto e dormire sodo qualche ora; ma quella era chiaramente una soluzione di ripiego.

— Vieni con me — lo invitò il vegliardo, e insieme s’incamminarono verso l’interno dell’isola, imboccando un sentiero che costeggiava il pascolo delle capre e serpeggiava tra poggi, campicelli un po’ trascurati, e insenature della foresta. Gont era un luogo dall’aspetto selvaggio per l’ospite, aspro e caotico, con la montagna irsuta che si stagliava sempre minacciosa.

Mentre camminavano, Sparviere spiegò: — Ho pensato che, se io sono riuscito a fare quel che ha fatto il maestro erborista, a tenerti lontano dalla collina del muro semplicemente toccandoti con la mia mano, forse allora ci sono altri in grado di aiutarti. Sempre che tu non abbia nulla in contrario se si tratta di animali.

— Animali?

— Vedi — iniziò il vecchio, ma non poté continuare, interrotto da una strana creatura che avanzava verso di loro saltellando sul sentiero. Era infagottata in gonne e scialli, e delle piume le spuntavano dalla testa in tutte le direzioni. — Oh, Mastroviere, Mastroviere! — sbraitò.