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— Salve, Erica. Adagio, piano — fece Sparviere.

La donna si fermò, dondolando il corpo, le piume in testa ondeggianti, un largo sorriso sul volto. — Lei sapeva che stavi arrivando! — vociò. — Ha fatto il becco dello sparviero con le dita… così, vedi… ha fatto così, e mi ha detto vai, vai, con la mano! Sapeva che stavi venendo!

— E sto proprio venendo.

— A trovarci?

— A trovarvi. Erica, questo è maestro Alder.

— Mastralno — mormorò la donna, calmandosi di colpo mentre includeva la presenza di Alder nella propria coscienza. Indietreggiò, si chiuse in se stessa, si guardò i piedi.

Non portava stivali. Le sue gambe nude erano coperte dal ginocchio in giù di fango liscio marrone che stava seccando. Le gonne, raccolte, avevano l’orlo infilato nella cintura.

— Sei andata a caccia di rane, vero, Erica?

Lei annuì con aria assente.

— Andrò a dirlo a zietta — fece, iniziando sottovoce e terminando con un muggito, e partì di gran carriera tornando sui propri passi.

— È una brava persona — disse Sparviere. — Un tempo aiutava mia moglie. Adesso vive con la nostra strega e l’aiuta. Credo che non avrai nulla in contrario a entrare nella casa di una strega, sbaglio?

— No, assolutamente… non ho nulla in contrario, mio signore.

— Molte persone, sì. Nobili e gente comune, maghi e stregoni.

— Mia moglie Giglio era una strega.

Ged chinò il capo e camminò in silenzio per un po’. — Com’è che tua moglie ha scoperto di possedere il dono, Alder?

— Era qualcosa di innato in lei. Da bambina sanava i rami spezzati degli alberi, e gli altri bambini le portavano i loro giocattoli rotti da aggiustare. Ma quando suo padre la vedeva fare quelle cose, le picchiava le mani. La famiglia di Giglio contava molto nella sua città. Persone rispettabili — raccontò il marito, con voce calma, dolce. — Non volevano che lei frequentasse streghe, dato che questo le avrebbe impedito di sposare un uomo rispettabile. Così lei teneva tutto per sé. E le streghe non volevano avere nulla a che fare con lei, neppure quando cercava di imparare da loro, perché temevano suo padre. Poi un uomo ricco cominciò a corteggiarla, perché era bella, come ti ho detto, mio signore. Più bella di quanto io possa descrivere. E suo padre le disse che doveva sposarsi. Giglio fuggì quella stessa notte. Visse da sola, vagando, per alcuni anni, ospitata qui e là da qualche strega, ma mantenendosi grazie al suo talento.

— Non è una grande isola, Taon.

— Suo padre non la cercava. Diceva che una strega che andava in giro ad aggiustare oggetti non poteva essere sua figlia.

L’altro piegò di nuovo il capo. — Così lei sentì parlare di te, e ti raggiunse.

— Ma mi insegnò molte più cose di quelle che potevo insegnarle io — disse Alder, sincero. — Possedeva un grande dono.

— Ci credo.

Erano giunti a una piccola casa, o una grande capanna, situata in fondo a una valletta, circondata da grovigli di amamelide e ginestra, con una capra sul tetto, e un numero di galline nere macchiettate di bianco che starnazzavano, e una pigra cagnetta da pastore che si alzò per abbaiare, poi cambiò idea e dimenò la coda.

Sparviere andò alla porta bassa, si chinò e guardò dentro. — Ecco, zietta! — esordì. — Ti ho portato un visitatore. Alder, uno stregone dell’isola di Taon. La sua arte è la riparazione, ed è un vero maestro, te lo garantisco, perché l’ho appena visto rimettere insieme la brocca verde di Tenar, tu sai quale intendo, brocca che io da vecchio sciocco maldestro avevo fatto cadere e rotto in tanti pezzi l’altro giorno.

Entrò nella capanna, e Alder lo seguì. Una vecchia sedeva su una sedia imbottita vicino alla porta, da dove poteva guardare l’esterno illuminato dal sole. Delle piume le spuntavano dai capelli bianchi sottili. Una gallina chiazzata le stava accovacciata in grembo. La vecchia sorrise a Ged con dolcezza e gli rivolse un garbato cenno di saluto. La gallina si svegliò, chiocciò e se ne andò.

— Questa è Muschio — disse Sparviere. — Una strega con tante doti, la più grande delle quali è la gentilezza.

In quel modo, rifletté Alder, l’arcimago di Roke avrebbe potuto presentare un grande mago a una grande signora. Fece un inchino. La vecchia piegò il capo e rise un poco.

Fece un gesto circolare con la mano sinistra, rivolgendo al vecchiardo uno sguardo interrogativo.

— Tenar? Tehanu? — disse Sparviere. — Ancora a Havnor con il re, per quel che ne so. Si divertiranno moltissimo là, visitando la grande città e i palazzi.

— Ho fatto delle corone per noi — strillò Erica, sbucando dalla parte più interna della casa, un caos buio e odoroso. — Come re e regine. Visto? — Si lisciò le penne di gallina infilate nei capelli folti. Zietta Muschio, ricordandosi della propria singolare acconciatura, diede qualche debole colpetto alle piume e fece una smorfia.

— Le corone sono pesanti — disse Ged. Delicatamente, le tolse le piume dalle ciocche di capelli più fini.

— Chi è la regina, Mastroviere? — strillò Erica. — Chi è la regina? Bannen è il re, chi è la regina?

— Re Lebannen non ha una regina, Erica.

— Perché no? Dovrebbe averla. Perché no?

— Forse la sta cercando.

— Sposerà Tehanu! — gridò allegra Erica. — La sposerà!

Alder vide che il volto di Sparviere cambiava, si chiudeva, diventava roccia.

Il vecchio disse solo: — Ne dubito. — Stringendo le penne tolte dai capelli di Muschio, le accarezzò adagio. — Sono venuto a chiederti un favore, come sempre, zietta Muschio — aggiunse poi.

La vecchia allungò la mano sana e prese quella del vecchio con tale tenerezza che Alder provò una profonda commozione.

— Vorrei che mi prestassi uno dei tuoi cuccioli.

Muschio assunse un’espressione mesta. Erica, a bocca aperta accanto a lei, rifletté a lungo e poi gridò: — I cuccioli! zietta Muschio, i cuccioli! Ma non ci sono più!

La vecchia annuì, desolata, accarezzando la mano bruna di Sparviere.

— Qualcuno li voleva?

— Il più grande è uscito e forse è corso nella foresta e qualche creatura l’ha ucciso perché non è più tornato, e poi il vecchio Zonzo è venuto e ha detto che aveva bisogno di cani da pastore, che li avrebbe presi tutti e due e li avrebbe addestrati, e zietta glieli ha dati perché davano la caccia ai nuovi pulcini di Fiocchidineve, e si mangiavano là casa, anche.

— Be’, Zonzo forse avrà il suo bel daffare ad addestrarli — commentò Sparviere, abbozzando un sorriso. — Sono contento che li abbia lui, però mi dispiace che non ci siano più, perché volevo prenderne in prestito uno per un paio di notti. Dormivano sul tuo letto, vero, Muschio?

La vecchia annuì, ancora triste. Poi, rasserenandosi un po’, alzò lo sguardo con la testa piegata di lato e miagolò.

Sparviere batté le palpebre, perplesso, ma Erica capì. — Oh! I gattini! — gridò. — Grigina ne ha avuti quattro, e Nerone ne ha ucciso uno prima che potessimo fermarlo, ma ce ne sono ancora due o tre qui in giro, dormono con zietta quasi ogni notte, adesso che i cagnolini se ne sono andati. Micini, micini, micini! Dove siete, micini? — E dopo parecchio trambusto, rumori di lotta e miagolii acuti nell’interno buio della casupola, riapparve stringendo in mano un gattino grigio che si dimenava e protestava. — Eccone uno! — gridò, e lo lanciò a Ged, che lo prese impacciato e fu subito morso.

— Su, buono — disse quello. — Calmati. — Il gattino emise un ringhio in miniatura, e tentò di morderlo ancora. Muschio fece un cenno, e il vecchio le posò la bestiola in grembo. La vecchia l’accarezzò con mano lenta e pesante. Il micino si stese subito, si stirò, la guardò e fece le fusa.