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Sparviere gli aveva dato una lettera d’imbarco firmata dal re e marchiata con la runa della pace. — Il re me l’ha inviata perché la usassi se avessi cambiato idea — aveva spiegato il vegliardo, sbuffando. — Servirà a te. — Il capitano della nave, dopo averla fatta leggere dal commissario di bordo, diventò assai rispettoso e si scusò per lo spazio angusto e la lunghezza del viaggio. La Pretty Rose era diretta a Havnor, certo, però era una nave costiera, che trasportava modeste quantità di merci di porto in porto, e avrebbe potuto impiegare un mese per circumnavigare la costa sudorientale della Grande isola e raggiungere la città del re.

Lui non aveva nessuna fretta, disse Alder. Perché anche se temeva il viaggio in mare, temeva ancor di più la fine della traversata.

Dal novilunio al semilunio, Alder conobbe un periodo di pace. Il gattino grigio era un viaggiatore robusto e audace; per tutto il giorno dava la caccia ai topi a bordo della nave, ma di notte si raggomitolava fedele sotto il suo mento o al suo fianco; e con grande stupore, quella creaturina calda continuava a tenerlo lontano dal muro di pietra e dalle voci che lo chiamavano dal lato opposto della barriera. Non del tutto, però. Non a tal punto da fargliele dimenticare completamente. Erano là, appena oltre il velo del sonno nell’oscurità, appena oltre il chiarore del giorno. Dormendo sul ponte in quelle notti calde, Alder spesso apriva gli occhi per assicurarsi che le stelle si muovessero, ondeggiando al dondolio della nave ormeggiata, seguendo il loro corso nel cielo verso ovest. Era ancora un uomo tormentato. Ma per metà mese d’estate lungo le coste di Kameber e Barnisk e della Grande isola, poté volgere le spalle ai propri fantasmi.

Per giorni interi il gattino diede la caccia a un topo quasi delle sue dimensioni. Vedendolo trascinare orgoglioso la preda sul ponte, uno dei marinai lo chiamò Tiro. E ad Alder quel nome piacque.

Attraversarono lo stretto di Ebavnor ed entrarono nella baia di Havnor. Sulla distesa d’acqua illuminata dal sole, a poco a poco apparvero in lontananza, emergendo dalla foschia, le torri bianche della città al centro del mondo. Alder era in piedi a prua quando giunsero a destinazione e, alzando lo sguardo vide sul pinnacolo della torre più alta un bagliore di luce argentea, la spada di Erreth-Akbe.

A quel punto avrebbe voluto rimanere a bordo, continuare il viaggio ed evitare di scendere a terra nella grande città e presentarsi a gente di rango elevato con una lettera per il re. Sapeva di non essere un messaggero adatto a tale incarico. Perché un onere così gravoso era toccato proprio a lui? Com’era possibile che uno stregone di campagna che non sapeva nulla delle questioni importanti e delle arti profonde dovesse compiere quei viaggi di terra in terra, da mago a monarca, dai vivi ai morti?

Aveva detto qualcosa del genere a Sparviere. — Non sono cose alla mia portata — aveva fatto notare. Il vegliardo lo aveva osservato un poco, poi, chiamandolo con il suo vero nome, aveva replicato: — Il mondo è vasto e strano, Hara, ma non più vasto e strano della nostra mente. Pensa a questo, qualche volta.

Dietro la città, il cielo fu oscurato da un temporale nell’entroterra. Le torri ardevano bianche sullo sfondo nero violaceo, e i gabbiani si libravano sopra di esse come scintille di fuoco svolazzanti.

La Pretty Rose attraccò, venne abbassata la passerella. Questa volta i marinai lo salutarono e gli augurarono buona fortuna mentre si metteva lo zaino in spalla. Alder raccolse il cesto coperto in cui era accovacciato paziente Tiro, e sbarcò.

Le strade erano numerose e affollate, ma la via da seguire per raggiungere il palazzo era chiara, e non gli rimase che seguirla e dire che aveva una lettera per il re da parte dell’arcimago Sparviere.

E lo disse molte volte.

Andò da una guardia all’altra, da un funzionario all’altro, dagli ampi scalini esterni del palazzo ad alte anticamere, scale dalla balaustra dorata, uffici interni con le pareti coperte di arazzi, percorrendo pavimenti di piastrelle e di marmo e di quercia, sotto soffitti a cassettoni, a volta, dipinti, ripetendo la sua magica litania: — Vengo da parte di Sparviere, l’arcimago di un tempo, con una lettera per il re. — Non voleva consegnare la lettera. Un codazzo di gente, una folla di guardie e uscieri e funzionari sospettosi, sussiegosi, che temporeggiavano e ostacolavano, continuava a radunarsi attorno a lui, gli stava appresso e intralciava la sua lenta avanzata nel palazzo.

Poi, all’improvviso, sparirono tutti. Si era aperta una porta. Si richiuse alle sue spalle.

Alder era solo in una stanza silenziosa. Un’ampia finestra dava sui tetti, rivolta a nord-ovest. Le nubi temporalesche si erano dissolte, e la grande vetta grigia del monte Onn si stagliava sopra colline lontane.

Si aprì un’altra porta. Entrò un uomo, vestito di nero, circa della sua stessa età, dai movimenti rapidi, con un volto bello e forte, liscio come bronzo. Andò subito verso di lui.

— Maestro Alder, sono Lebannen.

Tese la destra per toccare la mano di Alder, palmo contro palmo, secondo la consuetudine di Ea ed Enlades. Egli rispose automaticamente a quel gesto familiare. Poi rifletté che avrebbe dovuto inginocchiarsi, o almeno inchinarsi, ma ormai il momento per farlo era passato. Così restò impalato.

— Ti ha inviato lord Sparviere? Come sta? Sta bene?

— Sì, signore. Ti manda… — Alder si frugò frettoloso nella giubba in cerca della lettera, che si era riproposto di porgere al sovrano inginocchiandosi, quando finalmente lo avessero accompagnato nella sala del trono dove il re lo avrebbe atteso seduto sulla sua grossa poltrona… — questa lettera, mio signore.

Gli occhi che lo osservavano erano vigili, cortesi, penetranti come quelli dell’arcimago, ma ancor più imperscrutabili. Mentre prendeva la lettera consegnatagli da Alder, il re disse con modi impeccabili: — Il latore di qualsiasi messaggio da parte sua è il benvenuto e ha i miei più fervidi ringraziamenti… Vuoi scusarmi?

Alder riuscì finalmente a inchinarsi. Il sovrano si avvicinò alla finestra per leggere la lettera.

La lesse almeno due volte, quindi la ripiegò. Il suo viso era impassibile come poco prima. Andò alla porta e parlò a qualcuno nella stanza accanto, poi tornò a girarsi verso il nuovo arrivato. — Prego, siediti con me — disse. — Ci porteranno qualcosa da mangiare. Sei stato tutto il pomeriggio nel palazzo, lo so. Se il capoguardia avesse avuto il buonsenso di informarmi, avrei potuto risparmiarti le ore necessarie per superare le mura e i fossati… Sei stato ospite di lord Sparviere? Nella sua casa sull’orlo della scogliera?

— Sì.

— Ti invidio. Non sono mai stato là. Non lo vedo da quando ci separammo a Roke, ed è trascorsa metà della mia vita da allora. Non ha mai voluto che andassi da lui a Gont. Non è venuto alla mia incoronazione. — Lebannen sorrise, come se si trattasse di cose prive di importanza. — Mi ha dato il regno — disse.

Sedendosi, con un cenno invitò Alder a prendere posto di fronte a lui dall’altra parte di un tavolino. Alder guardò il piano del tavolo, intarsiato con motivi sinuosi d’avorio e d’argento, foglie e fiori di sorbo intrecciati a spade sottili.

— Hai fatto buon viaggio? — chiese il re, e chiacchierò del più e del meno mentre venivano serviti piatti di carne fredda e trota affumicata con lattuga e formaggio. Diede ad Alder il buon esempio mangiando con appetito; e versò a entrambi del vino color topazio chiarissimo, in calici di cristallo. Alzò il proprio bicchiere. — Al mio signore e caro amico — brindò.

Il commensale mormorò: — A lui. — E bevve.

Il re parlò di Taon, che aveva visitato alcuni anni addietro… Alder ricordava l’eccitazione di tutta l’isola quando il re era stato a Meoni. Parlò di alcuni musicisti di Taon che erano in città in quel periodo, arpisti e cantori venuti a esibirsi per la corte; forse lui conosceva qualcuno di loro; i nomi, infatti, che il re pronunciò gli erano familiari. Il sovrano era molto bravo a mettere a proprio agio l’ospite, e facevano la loro parte anche il cibo e il vino.