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Quando ebbero finito di mangiare, il re versò a entrambi un altro mezzo bicchiere di vino, e disse: — La lettera riguarda te, perlopiù. Lo sapevi? — Il suo tono non era cambiato granché rispetto alle chiacchiere di poc’anzi, e per un attimo Alder rimase interdetto.

— No — rispose.

— Hai idea di che cosa parli?

— Di quello che sogno, forse — fece Alder sottovoce, abbassando lo sguardo.

Il re lo osservò un istante. Non c’era nulla di offensivo nei suoi occhi, ma in quell’esame il sovrano fu più esplicito di quanto non sarebbero stati la maggior parte degli uomini. Poi prese la lettera e gliela porse.

— Mio signore, io leggo pochissimo.

Il sovrano non era sorpreso — alcuni stregoni sapevano leggere, altri no — ma si rammaricò in modo evidente di aver messo in imbarazzo l’ospite. Il colorito bronzeo dorato del suo volto diventò rosso cupo. — Scusami, Alder. Posso leggerti quel che dice lord Sparviere?

— Sì, grazie, mio signore — rispose lui. Di fronte al disagio del sovrano, per un attimo si sentì pari al re, e per la prima volta parlò con naturalezza e cordialità.

Lebannen scorse in fretta le righe introduttive, quindi lesse ad alta voce: — "Alder di Taon, latore di questa missiva, viene chiamato in sogno e contro la propria volontà in quella terra che tu e io attraversammo una volta insieme. Ti parlerà di sofferenza là dove la sofferenza è ormai passata, e di cambiamento là dove nulla cambia. Noi avevamo chiuso la porta aperta da Cob. Ora il muro forse deve cadere. Alder è stato a Roke. Solo Azver lo ha ascoltato. Il re mio signore ascolterà e agirà con la saggezza richiesta in questa circostanza. Alder reca il mio tributo di sempiterno onore e obbedienza al re mio signore. E di sempiterno onore e considerazione per la mia signora Tenar. E reca inoltre un mio messaggio verbale per la mia diletta figlia Tehanu". E firma con la runa dell’Artiglio. — Lebannen staccò lo sguardo dalla lettera e lo fissò negli occhi. — Dimmi cosa sogni — chiese.

Così, una volta ancora, lui raccontò la propria storia.

La espose in breve e non molto bene. Anche se aveva avuto soggezione di Sparviere, l’ex arcimago sembrava un vecchio contadino, ne aveva l’aspetto, l’abbigliamento e il modo di vivere; pareva dunque un uomo del suo stesso rango, e tale semplicità aveva cancellato il suo timore e la sua timidezza. Per quanto gentile e cortese potesse essere, il re aveva un aspetto regale, si comportava da re, era il governante, e per Alder la distanza che li separava era insuperabile. Così si affrettò a raccontare come meglio poteva e, giunto al termine, si sentì sollevato.

Lebannen gli rivolse qualche domanda. Giglio e poi Sula lo avevano entrambi toccato una volta: mai più dopo quella volta? E il tocco di Sula lo aveva bruciato?

Alder allungò la mano. I segni erano quasi invisibili sotto l’abbronzatura di un mese.

— Credo che la gente accanto al muro mi toccherebbe se mi avvicinassi — disse.

— Però tu stai lontano da loro?

— L’ho fatto.

— E non sono persone che conoscevi in vita?

— A volte mi sembra di riconoscere qualcuno.

— Ma mai tua moglie?

— Sono tanti, mio signore. A volte ho l’impressione che lei sia là con loro. Ma non riesco a vederla.

Parlandone, l’incubo cominciò quasi a materializzarsi. Alder fu pervaso di nuovo dalla paura. Pensò che le pareti della stanza potessero dissolversi, che il cielo della sera e la vetta del monte potessero svanire come una tenda scostata, lasciandolo dove si ritrovava sempre, là, su una collina tenebrosa vicino a un muro di pietra.

— Alder.

Alzò lo sguardo, scosso, la testa che gli girava. La stanza sembrava luminosa, la faccia del re dura e vivida.

— Alloggerai qui nel palazzo?

Era un invito, ma Alder riuscì solo ad annuire, accettandolo come un ordine.

— Bene. Darò disposizioni perché domani tu comunichi a Tehanu il messaggio destinato a lei. E so che la Bianca signora desidererà parlare con te.

Alder s’inchinò. Il sovrano si voltò per andarsene.

— Mio signore…

Quello si girò.

— Posso tenere con me il mio gatto?

Nemmeno l’accenno di un sorriso, nessuna traccia di dileggio. — Certo.

— Mio signore, mi dispiace terribilmente portarti notizie preoccupanti!

— Qualsiasi messaggio da parte dell’uomo che ti ha inviato qui mi giunge gradito. Preferisco ricevere cattive notizie da un uomo onesto che menzogne da un adulatore — disse Lebannen, e Alder, cogliendo in quelle parole il vero accento delle proprie isole natie, si sentì un poco rincuorato.

Il re uscì, e subito un uomo si affacciò alla porta da cui lui stesso era entrato. — Se vuoi seguirmi, ti condurrò nella tua stanza, signore — annunciò. Era solenne, anziano e ben vestito, e lui lo seguì, senza sapere se fosse un nobiluomo o un servitore, e non osando quindi chiedergli di Tiro. Nell’anticamera della sala dove aveva incontrato il re, i funzionari e le guardie avevano insistito irremovibili perché lasciasse lì il suo cesto. Il cestino era già stato osservato con sospetto e ispezionato con disapprovazione da una quindicina di funzionari. Alder aveva spiegato altrettante volte che aveva con sé il gatto perché non sapeva dove lasciarlo in città. L’anticamera dov’era stato costretto a posare il fardello era ormai lontana e lui non aveva visto nessun cesto quando l’avevano attraversata, e adesso non l’avrebbe più trovato, era a mezzo palazzo di distanza, dopo un labirinto di corridoi, passaggi, porte…

La sua guida s’inchinò e lo lasciò in una cameretta bellissima, con arazzi, tappeti, una sedia ricamata, una finestra che dava sul porto, un tavolo su cui vi erano un piatto di frutti estivi e una brocca d’acqua. E il suo cesto.

Lo aprì. Tiro uscì tranquillamente, come se avesse grande dimestichezza con i palazzi. Si stiracchiò, annusò le dita del padrone in segno di saluto, e cominciò a esplorare la stanza. Scoprì, dietro una tenda, un’alcova con il letto, e vi saltò sopra. Bussarono piano alla porta. Un giovane entrò con una cassetta di legno senza coperchio. S’inchinò, mormorando: — La sabbia, signore. — Posò la cassetta in un angolo in fondo all’alcova. Fece un altro inchino e se ne andò.

— Bene — disse lui, sedendosi sul letto. Non aveva l’abitudine di parlare al gattino. Il loro era un rapporto di contatto fisico muto e fiducioso. Ma doveva parlare con qualcuno. — Oggi ho conosciuto il re — disse.

Il re dovette conversare con fin troppe persone, prima di potersi sedere sul proprio letto. Innanzitutto, c’erano gli emissari del sommo re dei Karg. Stavano per partire, avendo portato a termine la loro missione a Havnor in modo soddisfacente per loro, ma tutt’altro che proficua per il sovrano.

Lebannen aveva atteso con ansia la visita di quegli ambasciatori, considerandola il culmine di anni di pazienti offerte, inviti e negoziati. Nei primi dieci anni di regno, non era riuscito a concludere nulla con i Karg. Il dio-re di Awabath respingeva le sue proposte di trattati e scambi commerciali, e rimandava a casa i suoi inviati senza neppure ascoltarli, dichiarando che gli dei non parlamentavano con i volgari mortali, tanto meno con i maledetti stregoni. Ma i proclami di impero divino universale del dio-re non furono seguiti dalle flotte di navi cariche di guerrieri piumati che dovevano invadere l’Occidente ateo. Perfino le scorrerie dei pirati che affliggevano da tanto tempo le isole orientali dell’Arcipelago a poco a poco cessarono. I pirati erano diventati contrabbandieri che cercavano di barattare le merci fatte uscire illegalmente da Karego-At in cambio di ferro, acciaio e bronzo dell’Arcipelago, perché le terre dei Karg erano povere di miniere e metallo.