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Era più giovane di questa ragazza quando era giunta a Havnor con l’Anello. Ma lei non era cresciuta senza potere, a differenza della principessa. Anche se il suo potere come unica sacerdotessa era stato per lo più rituale, simbolico, Tenar aveva assunto davvero il controllo del proprio destino quando aveva rotto con le odiose usanze della propria educazione e aveva conquistato la libertà per sé e per il prigioniero. Ma la figlia di un signore della guerra poteva controllare, invece, solo cose di poca importanza. Quando il padre si fosse proclamato re, la giovane sarebbe stata chiamata principessa, le avrebbero dato abiti più sfarzosi, più schiave, più eunuchi, più gioielli e poi alla fine sarebbe stata data in sposa; ma il tutto senza poter mai aprire bocca. Del mondo fuori dall’alloggio femminile avrebbe visto appena qualche scorcio attraverso feritoie in muri spessi, nascosta dietro strati di veli rossi.

Lei si riteneva fortunata a non essere nata su un’isola arretrata e barbara come Hur-at-Hur, a non aver mai indossato il feyag. Però sapeva cosa significasse crescere nella morsa di una tradizione ferrea. Doveva fare il possibile per aiutare la principessa, finché si trovava a Havnor. Ma non intendeva rimanervi a lungo.

Passeggiando nel giardino, osservando il luccichio delle fontane nel chiarore stellare, pensò a come e quando sarebbe potuta andare a casa.

Non la infastidivano le formalità della vita di corte, né la consapevolezza che sotto il garbo ribolliva un calderone di ambizioni, rivalità, passioni, complicità e collusioni. Era cresciuta con i rituali e l’ipocrisia e gli intrighi politici, e nulla di tutto ciò la spaventava o la preoccupava. Soffriva semplicemente di nostalgia. Voleva tornare a Gont, da Ged, nella loro casa.

Era venuta a Havnor perché Lebannen aveva mandato a chiamare lei e Tehanu, e anche Ged, se lui avesse voluto seguirle; ma suo marito si era rifiutato di partire, e la figlia non sarebbe partita senza di lei. Questo la spaventava e la preoccupava. Sua figlia non era capace di staccarsi da lei? Era del parere di Tehanu che il re aveva bisogno, non del suo. Ma sua figlia si aggrappava a lei, a disagio e spaesata nella corte di Havnor, come la ragazza di Hur-at-Hur, e al pari della ragazza, silenziosa e isolata.

Dunque Tenar adesso doveva svolgere il ruolo di bambinaia, istitutrice e compagna con entrambe, due ragazze spaventate che non sapevano come impossessarsi del proprio potere, mentre lei non desiderava alcun potere, tranne quello che le avrebbe concesso la libertà di andare a casa e aiutare Ged a curare l’orto.

Sarebbe stato bello poter coltivare rose bianche come queste, a casa. Il loro profumo era così dolce nell’aria notturna. Ma c’era troppo vento sull’Overfell, e d’estate il sole era troppo forte. E probabilmente le capre avrebbero finito con il mangiare le rose.

Alla fine, tornò nel palazzo e attraversò l’ala est fino all’appartamento che occupava con Tehanu. Sua figlia dormiva, poiché era tardi. Una fiamma non più grande di una perla bruciava sullo stoppino di una minuscola lampada di alabastro. Le stanze erano silenziose, buie. Spense la lampada, si coricò, e presto scivolò nel sonno.

Stava percorrendo un corridoio di pietra, stretto, con un alto soffitto a volta. Portava la lampada di alabastro. Il debole ovale di luce veniva inghiottito dall’oscurità davanti a lei e alle sue spalle. Giunse alla porta di una stanza che dava sul corridoio. Nella camera c’erano persone con ali d’uccello. Alcune avevano teste di volatili, falchi e avvoltoi. Erano in piedi o accovacciate, immobili, non la guardavano, non guardavano nulla, gli occhi cerchiati di bianco e di rosso. Le loro ali erano simili a grandi mantelli neri che scendevano lungo il dorso. Capì che non potevano volare. Erano così addolorate, così disperate, quelle persone, e l’aria nella stanza era così viziata che cercò di andarsene, di fuggire, senza riuscire a muoversi; e lottando contro quella paralisi, si svegliò.

C’erano le ombre calde, le stelle alla finestra, il profumo delle rose, il rumore sommesso della città, il respiro di Tehanu addormentata.

Si drizzò a sedere per scuotersi di dosso i resti del sogno. Aveva sognato la Stanza dipinta del Labirinto delle tombe, dove aveva incontrato per la prima volta Ged, quarant’anni prima. Nel sogno, i dipinti sulle pareti avevano preso vita. Ma non era una forza vitale. Era l’eterna non esistenza di coloro che morivano senza rinascita, di quelli maledetti dagli Innominabili: miscredenti, occidentali, stregoni.

Dopo la morte si rinasceva. Quella era la certezza in cui era stata educata. Quando da bambina l’avevano portata alle Tombe perché fosse Arha, la Divorata, le avevano detto che lei sola tra tutta la gente era e sarebbe rinata come se stessa, vita dopo vita. A volte Tenar aveva creduto che fosse vero, ma non sempre, anche quando era la sacerdotessa delle Tombe, e in seguito aveva smesso di crederlo. Sapeva però quello che tutti gli abitanti delle terre dei Karg sapevano, che quando morivano tornavano in un nuovo corpo, che la lampada che si spegneva si riaccendeva nello stesso istante altrove, nel ventre di una donna o nel minuscolo uovo di un pesce o in un seme d’erba portato dal vento, tornando all’esistenza, immemore della vecchia vita, ricominciando daccapo una nuova vita, in un ciclo eterno.

Solo quelli reietti dalla terra stessa, dai vecchi poteri, gli stregoni foschi delle terre hardiche, non rinascevano. Quando morivano — così dicevano i Karg — quelli non si riunivano al mondo vivente, ma andavano in un luogo desolato di semiesistenza dove, alati ma incapaci di volare, né uccelli né umani, dovevano perdurare senza speranza. Con quanto piacere la sacerdotessa Kossil le aveva parlato del terribile destino di quei nemici vanagloriosi del dio-re, delle loro anime condannate ad essere escluse per sempre dal mondo della luce!

Ma l’aldilà di cui Ged le aveva parlato, il luogo dove andava la gente di Ged, quella terra immutabile di polvere e tenebra… era quello meno desolato, meno terribile?

Interrogativi senza risposta si dibattevano nella mente di Tenar: dato che non era più una karg, dato che aveva tradito il luogo sacro, sarebbe andata in quella terra desolata quando fosse morta? E anche Ged vi sarebbe andato? E là si sarebbero incrociati, ignorandosi? Impossibile. Ma… e se lui fosse andato là, e lei fosse rinata, e la loro separazione fosse eterna?

Lei non voleva pensare a certe cose. Era abbastanza chiaro il motivo per cui aveva sognato la Stanza dipinta, tanti anni dopo essersi lasciata alle spalle quel mondo. Era successo perché aveva visto gli emissari, perché aveva parlato di nuovo in kargico, naturalmente. Ma era comunque turbata, spaventata dal sogno. Non voleva tornare agli incubi della propria gioventù. Voleva tornare nella casa sull’Overfell, coricarsi accanto al marito, sentire il respiro di Tehanu addormentata. Ged, quando dormiva, era immobile e silenzioso come un sasso; ma il fuoco aveva leso in parte la gola di Tehanu, e c’era sempre una lieve asprezza nel respiro della ragazza, e lei si era abituata ad amare quel leggero rantolo, notte dopo notte, anno dopo anno. Era la vita, era la vita che tornava, quel caro suono, quel lieve ansito aspro.

Ascoltandolo, finalmente la madre riprese sonno. Se sognò, sognò solo distese aeree e i colori del mattino che si muovevano nel cielo.

Alder si svegliò molto presto. Il suo piccolo compagno aveva trascorso una notte agitata, così come lui stesso. Fu contento di alzarsi, andare alla finestra e sedersi assonnato a osservare il cielo che si schiariva sopra il porto, le barche da pesca che partivano e le vele delle navi che spiccavano tra la foschia nella grande baia, e di ascoltare il brusio e il tramestio della città che si accingeva a iniziare la giornata. Più o meno quando cominciò a chiedersi se fosse il caso di avventurarsi nel labirinto del palazzo per informarsi su cosa dovesse fare, bussarono alla porta. Un uomo portò un vassoio di frutta fresca e pane, una caraffa di latte e una ciotola di carne per il gattino. — Verrò a condurti in presenza del re quando sarà suonata la quinta ora — gli annunciò solenne, poi assai meno cerimonioso gli spiegò come scendere nei giardini del palazzo, se desiderava fare una passeggiata.