— Non c’è nessuno, là?
— C’è il vecchio. Il vecchio Sparviere.
L’uomo proseguì. La bambina restò a osservarlo finché non scomparve dietro l’angolo della casa.
Due capre fissarono lo straniero da un ripido campo cintato. Un gruppetto di galline e pulcini beccavano e pigolavano sommessamente qui e là nell’erba alta sotto peschi e susini. Su una scaletta appoggiata al tronco di un albero c’era un uomo; la testa era nascosta dalle foglie, e il viaggiatore vide solo le sue gambe brune e nude.
— Salve — disse, ripetendo poco dopo il saluto e alzando un poco la voce.
Le foglie si mossero, e l’uomo scese svelto dalla scala. Teneva una manciata di susine, e quando si staccò dalla scala, scacciò un paio di api attirate dal succo. Si avvicinò; era un uomo basso, dalla schiena dritta, con capelli grigi legati sulla nuca e una bella faccia segnata dal tempo. Dimostrava una settantina d’anni. Delle vecchie cicatrici, quattro linee bianche, andavano dallo zigomo sinistro alla mascella. Il suo sguardo era limpido, franco, intenso. — Sono mature… anche se domani saranno ancora più buone — disse. E porse la manciata di piccole susine gialle.
— Lord Sparviere — esordì rauco lo straniero. — Arcimago…
Il vecchio annuì brusco. — Vieni all’ombra.
L’uomo lo seguì e fece quello che l’anziano lo invitò a fare: si sedette su una panca di legno all’ombra dell’albero nodoso più vicino alla casa; accettò la frutta, ora sciacquata e servita in un cesto e ne assaggiò un po’. Interrogato, ammise di non avere mangiato nulla quel giorno. Rimase seduto mentre il padrone di casa entrava nell’abitazione e usciva poco dopo con pane e formaggio e mezza cipolla. L’ospite mangiò e bevve una tazza di acqua fresca portatagli dal vecchio. Il vecchio prese qualche susina per fargli compagnia.
— Sembri stanco. Da dove arrivi?
— Da Roke.
L’espressione del vecchio era difficile da interpretare. Si limitò a dire: — Non l’avrei mai immaginato.
— Io sono di Taon, signore. Sono andato da Taon a Roke. E là il lord strutturatore mi ha detto di venire qui. Da te.
— Perché?
Era uno sguardo che incuteva timore.
— Perché tu hai attraversato vivo la terra oscura… - La voce rauca dello straniero si spense.
Il vecchio terminò la frase. — E sono giunto ai lidi lontani del giorno. Sì. Ma quella era una profezia che annunciava l’avvento del nostro re, Lebannen.
— Tu eri con lui, signore.
— Certo. E lui ha acquisito il suo regno, là. Ma io, là, ho lasciato il mio. Quindi, non chiamarmi con nessun titolo. Sparviere, soltanto. E io come devo, chiamarti?
L’uomo sussurrò il proprio nome d’uso. — Alder.
Il cibo, l’acqua, l’ombra e il fatto di potersi sedere gli avevano chiaramente giovato, però aveva ancora un’aria esausta. C’era in lui una tristezza logorante; gli si leggeva chiaro sul viso.
Il vecchio si era rivolto con un tono tagliente, che però era scomparso quando disse: — Rimandiamo la discussione a un altro momento. Tu hai navigato per quasi mille miglia, e ne hai fatte quindici camminando in salita. E io devo innaffiare i fagioli e la lattuga e tutto il resto, dato che mia moglie e mia figlia hanno affidato a me la cura dell’orto. Quindi, riposa un poco. Possiamo parlare con il fresco della sera. O con il fresco del mattino. È raro che ci sia tutta la fretta che un tempo pensavo ci fosse.
Quando tornò mezz’ora dopo, il suo ospite dormiva steso sull’erba fresca sotto i peschi.
L’uomo che era stato arcimago di Earthsea si fermò con un secchio in una mano e una zappa nell’altra, e osservò lo straniero addormentato.
— Alder — bisbigliò. — Qual è il guaio che ti porti appresso, Alder?
Gli sembrava che se avesse voluto sapere il vero nome di quell’uomo, l’avrebbe conosciuto solo pensando, applicandosi con la mente, come avrebbe potuto fare quando era un mago.
Ma non conosceva quel nome, e non lo avrebbe ottenuto concentrandosi, non era un mago.
Non sapeva nulla di quell’Alder, e avrebbe dovuto aspettare che fosse lui stesso a raccontargli. — Mai disturbare i guai che dormono — si disse, e andò a innaffiare i fagioli.
Non appena la luce del sole fu bloccata da una bassa parete di roccia che correva lungo la sommità della scogliera accanto alla casa, il fresco dell’ombra destò il dormiente. L’uomo si drizzò a sedere con un brivido, poi si alzò in piedi, un po’ indolenzito e confusa, con dei semi d’erba tra i capelli. Vedendo che il padrone di casa stava riempiendo dei secchi al pozzo e li portava a fatica nell’orto, andò ad aiutarlo.
— Altri tre o quattro secchi dovrebbero bastare — disse l’ex arcimago, dando acqua con parsimonia alle radici di una fila di giovani cavoli. L’odore del terriccio bagnato era piacevole nell’aria secca e calda. La luce del sole che volgeva al tramonto formava chiazze dorate irregolari sul terreno.
Si sedettero su una lunga panca vicino alla porta della casa per assistere al calar del sole. Sparviere aveva portato fuori una bottiglia e due bicchieri tozzi e spessi di vetro verdognolo. — Il vino del figlio di mia moglie — disse. — Viene da Oak Farm, nella valle Centrale. Una buona annata, sette anni fa. — Era un vino rosso forte che riscaldò subito Alder. Il sole tramontò in un cielo limpido e tranquillo. Gli uccelli sugli alberi del frutteto emisero alcune note conclusive.
Alder era rimasto sbalordito quando aveva appreso dal maestro strutturatore di Roke che l’arcimago Sparviere, l’uomo leggendario che aveva riportato a casa il re dal regno dei morti e poi era volato via in groppa a un drago, era ancora vivo. Era vivo, lo aveva informato lo strutturatore, e viveva a Gont, la sua isola natia. — Ti racconto cose di cui non molti sono a conoscenza — gli aveva detto il maestro — perché penso che tu debba saperle. E penso anche che manterrai il suo segreto.
— Ma allora è ancora arcimago! — aveva esclamato Alder, provando un senso di gioia; aveva infatti causato perplessità e preoccupazione in tutti gli uomini dell’arte il fatto che i saggi dell’isola di Roke, la scuola e il centro della magia dell’Arcipelago, in tutti gli anni del regno di re Lebannen, non avessero designato un nuovo arcimago.
— No — aveva dichiarato lo strutturatore. — Non è affatto un mago.
Il maestro gli aveva spiegato come e perché Sparviere avesse perso il proprio potere; e Alder aveva avuto tempo di riflettere sull’accaduto. Eppure lì, al cospetto di quell’uomo che aveva parlato con i draghi e riportato l’anello di Erreth-Akbe, attraversato il regno dei morti, e governato l’Arcipelago prima del re, tutte quelle storie e quelle canzoni erano ben vive nella sua mente. Pur vedendolo vecchio, contento di curare l’orto, senza alcun potere a parte quello di uno spirito arricchito da una lunga vita di pensiero e azione, Alder vedeva tuttora un grande mago. E dunque lo turbò notevolmente scoprire che Sparviere aveva una moglie.
Una moglie, una figlia, un figliastro… I maghi non avevano famiglia. Uno stregone comune come Alder poteva sposarsi, volendo, ma gli uomini che avevano il vero potere erano celibi. Riusciva a immaginare quell’uomo in groppa a un drago, era abbastanza facile, ma pensare a lui come a un marito e un padre era tutt’altro discorso. Non ci riusciva. Provò. Chiese: — Tua… moglie… È con suo figlio, allora?
Sparviere tornò da molto lontano. I suoi occhi stavano contemplando i golfi a ovest. — No — rispose. — È a Havnor. Con il re.
Dopo un po’, ritornando del tutto, aggiunse: — È andata là con nostra figlia subito dopo la Lunga danza. Lebannen le ha mandate a chiamare, per consultarle. Forse riguardo la stessa questione che ti ha condotto qui da me. Vedremo… Ma la verità è che sono stanco, questa sera, e non molto propenso ad affrontare questioni gravose. E anche tu sembri stanco. Dunque, che ne dici di una scodella di zuppa, magari, e di un altro bicchiere di vino, e poi di una bella dormita? Parleremo domattina.