Alder, naturalmente, sapeva che c’erano sei ore da mezzanotte a mezzogiorno e sei ore da mezzogiorno a mezzanotte, però non aveva mai sentito suonare le ore, e si chiese cosa quell’uomo intendesse dire.
Scoprì, poco dopo, che lì a Havnor quattro trombettieri sulla loggia da cui si ergeva la torre più alta del palazzo, quella con in cima la snella lama d’acciaio, alla quarta e quinta ora prima di mezzogiorno, a mezzogiorno, e alla prima, seconda e terza ora dopo di esso, suonavano le loro trombe rivolti uno a ovest, uno a nord, uno a est, uno a sud. In tal modo, i cortigiani e i mercanti della città potevano organizzare le loro attività e presentarsi agli appuntamenti all’ora convenuta. Un ragazzo che Alder incontrò passeggiando in giardino gli spiegò tutto questo, un ragazzino magro che indossava una tunica troppo lunga. Spiegò che i trombettieri sapevano quando suonare le loro trombe perché c’erano grandi clessidre nella torre, oltre al pendolo di Ath, che era attaccato alla sommità del torrione e, se fatto oscillare all’inizio esatto dell’ora, si fermava proprio all’inizio dell’ora successiva. E raccontò ad Alder che le melodie dei trombettieri facevano parte del lamento per Erreth-Akbe che re Maharion aveva scritto al ritorno da Selidor, una parte diversa per ogni ora, e solo a mezzogiorno veniva eseguita l’intera melodia. E se si voleva essere in un posto a una certa ora, bisognava tenere d’occhio la loggia, perché i trombettieri uscivano sempre qualche minuto prima, e se c’era il sole alzavano i loro strumenti d’argento perché brillassero e luccicassero. Il ragazzo si chiamava Rody ed era venuto con suo padre, il signore di Metana di Ark, per soggiornare un anno a Havnor, e andava a scuola a palazzo; aveva nove anni, e sentiva la mancanza della madre e della sorella.
Alder tornò nella propria stanza in tempo per l’appuntamento con l’accompagnatore, meno teso del previsto. La conversazione con il ragazzino gli aveva rammentato che i figli dei signori erano bambini, che i signori erano uomini, e che non erano gli uòmini ciò che lui doveva temere.
La guida lo condusse nei corridoi del palazzo, fino a una sala lunga e luminosa con una parete occupata da finestre, affacciate sulle torri di Havnor e i ponti fantastici che s’inarcavano sui canali e balzavano di tetto in tetto e di terrazzo in terrazzo sopra le vie. Alder scorse di sfuggita il panorama mentre indugiava vicino alla porta, incerto se avanzare verso il gruppo di persone all’estremità della sala.
Il re lo vide e gli si avvicinò, lo salutò con gentilezza, lo condusse dagli altri, e li presentò.
C’era una donna sulla cinquantina, piccola e con la pelle molto chiara, capelli grigi e grandi occhi cinerei: Tenar, disse il re sorridendo. Tenar dell’anello. Lei guardò Alder negli occhi e lo salutò sottovoce.
Alla sua destra un uomo che aveva circa l’età del re, vestito di velluto e di lino leggero, con gemme alla cintura e al collo, e un grosso rubino al lobo di un orecchio: il capitano Tosla, disse il re. La faccia di Tosla, scura come legno di quercia stagionato, era scaltra e dura.
C’era poi un uomo di mezz’età, vestito in modo semplice, con uno sguardo fermo che ad Alder ispirò subito fiducia: il principe Sege della casa di Havnor, disse il re.
Al suo fianco, un uomo sulla quarantina che stringeva un bastone alto quanto lui, cosa da cui Alder capì che si trattava di un mago della scuola di Roke. Aveva una faccia piuttosto consunta, belle mani, modi distaccati ma cortesi. Maestro Onice, disse il re.
Infine vi era una donna, che Alder scambiò per una serva, perché era vestita assai modestamente e stava in disparte, un poco girata come se guardasse attraverso le finestre. Lui vide la sua splendida massa di capelli neri, folti e lucenti come acqua di cascata, mentre Lebannen la conduceva accanto al gruppo. — Tehanu di Gont — disse il re, e la sua voce risuonò come un’intimazione.
Per un attimo, la donna lo guardò. Era giovane; il lato sinistro del volto era liscio, di un colorito roseo ramato, con un occhio scuro che brillava sotto l’arco del sopracciglio. Il lato destro era stato devastato, ed era tutto increspato, pieno di cicatrici, senz’occhio. La mano destra sembrava la zampa ricurva di un corvo.
Tese la mano ad Alder, secondo l’usanza della gente di Ea ed Enlades, come avevano fatto gli altri, ma allungò la sinistra. Lui gliela afferrò, palmo contro palmo. La mano di lei era calda, scottava. Tehanu lo guardò ancora, uno sguardo sorprendente da quell’unico occhio, vivido, corrucciato, feroce. Poi abbassò il capo e indietreggiò, come se non volesse far parte del gruppo, come se desiderasse trovarsi altrove.
— Maestro Alder reca un messaggio per te, un messaggio di tuo padre, lo Sparviere di Gont — disse il re, vedendo che il messaggero stava muto e impalato.
Tehanu non alzò il capo. La lucente chioma nera nascondeva quasi la devastazione del viso.
— Mia signora — esordì Alder, la bocca secca, la voce roca. — Tuo padre mi ha incaricato di rivolgerti due domande… — S’interruppe, solo per umettarsi le labbra e riprendere fiato, perché aveva avuto un istante di panico, temendo di aver dimenticato quanto doveva dire. Ma la pausa divenne un silenzio d’attesa.
La voce più roca della sua, la giovane disse: — Rivolgimi queste domande.
— Mi ha detto di chiedere innanzitutto: "Chi sono coloro che vanno nell’arida terra ferma?". E mentre mi congedavo da lui, ha aggiunto: "Chiedi anche a mia figlia, "Un drago oltrepasserà il muro di pietra?".
Tehanu annuì, confermando di avere inteso le domande, poi arretrò un po’, quasi volesse portare con sé gli enigmi, lontano da loro.
— L’arida terra ferma — disse il re — e i draghi…
Col suo sguardo vigile scrutò il volto dei presenti.
— Venite — li invitò. — Sediamoci e parliamo.
— Non potremmo parlare giù in giardino? — chiese la donna dagli occhi cinerei, Tenar. Il re acconsentì subito. Mentre uscivano, Alder sentì che la donna diceva al sovrano: — Per lei è arduo stare al chiuso tutto il giorno. Vuole il cielo.
I giardinieri portarono delle sedie, perché si accomodassero all’ombra di un enorme vecchio salice vicino a uno degli stagni. La ragazza andò accanto allo stagno, fissando l’acqua verde dove nuotavano lente alcune grosse carpe argentee. Era chiaro che desiderava riflettere sul messaggio del padre, non discutere, anche se poteva sentire ciò che gli altri dicevano.
Quando tutti furono seduti, sollecitato dal re, Alder raccontò ancora la propria storia. Ascoltarono compassionevoli in silenzio, e lui poté parlare senza soggezione e senza fretta. Quando ebbe terminato, gli altri rimasero zitti alcuni istanti, poi il mago Onice gli rivolse una domanda: — Hai sognato la notte scorsa?
Alder rispose di non ricordare di aver sognato.
— Io, sì — fece Onice. — Ho sognato l’evocatore, che era mio insegnante alla scuola di Roke. Dicono di lui che sia morto due volte: perché tornò da quella terra oltre il muro.
— Io ho sognato gli spiriti che non rinascono — disse Tenar, a voce bassissima.
Il principe Sege disse: — Per tutta la notte, mi è parso di udire delle voci giù nelle vie della città, voci appartenute alla mia infanzia, che mi chiamavano come facevano un tempo. Ma quando ascoltavo, erano solo sentinelle o marinai ubriachi che schiamazzavano.
— Io non sogno mai — dichiarò Tosla.
— Io non ho sognato quella terra — fece il re. — L’ho ricordata. E non riuscivo a smettere di ricordare.