Così la piccola carovana si mise in viaggio diretta a ovest nelle colline pedemontane dei Falierns, mantenendo una buona andatura. Era la via più breve a disposizione di Lebannen; doppiare l’estremità meridionale di Havnor avrebbe richiesto troppo tempo. Avevano con sé il mago Onice perché tenesse lontano il maltempo, sgombrasse il percorso da qualsiasi ostacolo e li difendesse dai pericoli, tranne quello rappresentato dal fuoco dei draghi. Contro di essi, se li avessero incontrati, non avevano alcuna difesa, a parte forse Tehanu.
La sera prima, consultandosi con i consiglieri e gli ufficiali della guardia, il re si era reso conto ben presto che non c’era modo di combattere i draghi o proteggere le città e i campi: le frecce erano inutili, così anche gli scudi. Solo i più grandi maghi erano riusciti a sconfiggere un drago. Lui non ne aveva al proprio servizio uno così potente e non gli risultava che ne esistessero ancora, però doveva difendere il suo popolo come meglio poteva, e l’unico modo per farlo era cercare di parlamentare con i nemici.
Il suo maggiordomo era rimasto allibito quando Lebannen si era diretto verso l’appartamento di Tenar e Tehanu: il sovrano doveva mandare a chiamare quelli che desiderava vedere, ordinare loro di presentarsi al suo cospetto. — Non se deve pregarli di aiutarlo — replicò lui.
Chiese alla cameriera sbigottita che aprì la porta di farlo parlare con la Bianca signora e la donna di Gont. A palazzo e in città, le due donne erano conosciute con tali appellativi. Il fatto che portassero apertamente il loro vero nome, come faceva il re, era una cosa così rara, così contraria alla tradizione, alla sicurezza e alla proprietà, che la gente, pur conoscendolo forse, era riluttante a pronunciarlo e preferiva usare una perifrasi.
Il re fu fatto entrare e, dopo averle informate in breve delle notizie ricevute, disse: — Tehanu, può darsi che tu sola nel mio regno sia in grado di aiutarmi. Se potrai chiamare quei draghi come hai chiamato Kalessin, se avrai qualche potere su di loro, se potrai parlare con loro e chiedere perché fanno guerra al mio popolo, lo farai?
La giovane si ritrasse a quelle parole, girandosi verso la madre.
Ma Tenar non le offrì alcun rifugio. Restò immobile. Dopo alcuni istanti, disse: — Tehanu, tanto tempo fa ti ho detto che quando un re ti parla, devi rispondere. Eri una bambina, allora, e non hai risposto. Adesso non sei più una bambina.
La ragazza arretrò d’un passo, allontanandosi da entrambi. Abbassò la testa, intimidita. — Non posso chiamarli — mormorò, sommessa e stridula. — Non li conosco.
— Puoi chiamare Kalessin? — chiese Lebannen.
Lei scosse il capo. — Troppo lontano — sussurrò. — Non so dove…
— Ma tu sei la figlia di Kelessin — disse Tenar. — Non puoi parlare a questi draghi?
Lei rispose infelice: — Non lo so.
Il re disse: — Se esiste la possibilità che i draghi parlino con te, Tehanu, e che tu sia in grado di parlare con loro, ti prego di non tirarti indietro. Perché io non posso combatterli, e non conosco la loro lingua… e come posso scoprire cosa vogliono da noi, trattandosi di creature capaci di distruggermi con un soffio, con un’occhiata? Parlerai tu per me, per noi?
La giovane rimase in silenzio. Quindi, con un filo di voce, rispose: — Sì.
— Allora preparati a viaggiare con me. Partiremo alla quarta ora della sera. I miei uomini ti condurranno alla nave. Ti ringrazio. E ringrazio anche te, Tenar! — disse il sovrano, stringendole la mano un attimo, ma solo un attimo, perché doveva occuparsi di parecchie cose prima della partenza.
Quando giunse al molo, affrettandosi perché era in ritardo, scorse la snella figura incappucciata. L’ultimo cavallo da imbarcare sbuffava e puntava le zampe, rifiutandosi di salire sulla passerella. Tehanu disse qualcosa allo stalliere. Poi prese la briglia del cavallo e gli parlò un poco, e insieme oltrepassarono l’ostacolo.
A bordo della nave, lo spazio era scarso e affollato; verso mezzanotte, Lebannen udì due stallieri che conversavano sottovoce sul ponte di poppa. — Quella ha la mano fatata — disse uno, e l’altro, una voce di giovane: — Sì, certo, però è orribile da guardare, vero? — Il primo replicò: — Se un cavallo non ci fa caso, perché dovresti farlo tu? — e l’altro: — Non so… ma io ci faccio caso.
Ora, mentre cavalcavano dalle sabbie dell’Onneva nelle colline pedemontane, dove la strada si allargava, Tosla si accostò a Lebannen. — Lei sarà il nostro interprete, vero? — domandò.
— Se potrà.
— Ebbene, è più coraggiosa di quel che pensavo. Se la prima volta che ha parlato con un drago le è successa quella cosa terribile, è probabile che succeda ancora.
— Cosa intendi dire?
— Che è quasi morta bruciata.
— Non è stato un drago.
— Chi, allora?
— I suoi genitori.
— Come è andata? — chiese Tosla, facendo una smorfia.
— Erano vagabondi, ladri. Lei aveva cinque o sei anni. Non so cosa avesse fatto lei, o loro, ma alla fine venne percossa fino a perdere i sensi e fu gettata nel fuoco del loro bivacco. Pensavano, immagino, che fosse morta, e che sarebbe sembrato un incidente. Loro fuggirono. La trovarono dei contadini, e Tenar la prese con sé.
Tosla si grattò un orecchio. — Un bell’esempio di umana bontà. Dunque non è neppure figlia del vecchio arcimago? Ma allora cosa intendono dire con questa storia secondo cui lei sarebbe un cucciolo di drago?
Lebannen aveva navigato con Tosla, aveva combattuto al suo fianco anni addietro nell’assedio di Sorra, e sapeva che era un uomo coraggioso, acuto, controllato. Quando la sua rozzezza lo irritava, il re dava la colpa alla propria delicatezza eccessiva. — Non lo so — rispose pacato. — So solo che il drago l’ha chiamata figlia.
— Quel tuo mago di Roke, quell’Onice, è lesto a dire che non può far nulla in questa faccenda. Però parla la Vecchia lingua, no?
— Certo. Potrebbe incenerirti pronunciando qualche parola. Se non l’ha fatto, è per rispetto nei miei confronti, non nei tuoi, credo.
Tosla annuì. — Lo so.
Cavalcarono tutto il giorno alla massima andatura che i cavalli erano in grado di tenere, e al calar della notte giunsero in una piccola cittadina collinare dove le bestie avrebbero potuto mangiare e riposare, e i viaggiatori dormire in letti scomodi. Chi non era abituato ad andare a cavallo scoprì subito di riuscire a stento a camminare. La gente del posto non aveva sentito nulla a proposito di draghi, ed era frastornata solo dalla soggezione e dalla grande contentezza cagionata dall’arrivo di un folto gruppo di ricchi forestieri che volevano vitto e alloggio e pagavano con monete d’argento e d’oro.
I cavalieri si rimisero in viaggio molto prima dell’alba. C’erano quasi cento miglia dalle sabbie dell’Onneva a Resbel. Quel secondo giorno li avrebbe portati oltre il basso valico dei monti Falierns, e poi giù nel versante occidentale. Yenay, uno degli ufficiali più fidati del re, precedeva di parecchio la comitiva; Tosla formava la retroguardia; il re guidava il grosso del gruppo. Stava procedendo al piccolo trotto, mezzo addormentato nella fosca quiete antelucana, quando fu destato da un rumore di zoccoli che si avvicinavano. Yenay era tornato indietro. Lebannen guardò nella direzione indicata dall’ufficiale.
Erano appena usciti dai boschi sulla cresta di un colle, e la visuale era sgombra fino al passo. Le montagne su entrambi i lati del valico si stagliavano nere contro l’opaco bagliore rossastro di un’alba nuvolosa.
Ma loro stavano guardando a ovest.
— È più vicino di Resbel — disse Yenay. — Quindici miglia, forse.
La giumenta di Tehanu, sebbene piccola, era la bestia più bella del gruppo, ed era convinta di dover guidare gli altri. Se la ragazza non la tratteneva, continuava a spostarsi di lato e a superare chi la precedeva finché non arrivava in testa alla fila. La giumenta avanzò subito, quando Lebannen tirò le redini della propria cavalcatura, e così la ragazza si ritrovò accanto al sovrano, guardando nella direzione in cui stava guardando lui.