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Rimasero delusi: il re e il suo gruppo si diressero immediatamente a palazzo, e le guardie e i marinai della nave dissero solo: — Sono saliti sulle colline sopra l’Onneva, e due giorni dopo sono tornati. Il mago ha inviato un uccello messaggero per avvisarci, perché intanto eravamo scesi fino all’imboccatura della baia, dal momento che dovevamo attenderli a Porto Sud. Siamo tornati indietro e loro ci aspettavano alla foce del fiume, incolumi. Abbiamo però visto il fumo di foreste in fiamme sui Falierns meridionali.

Tenar era tra la folla sul pontile, e Tehanu si precipitò da lei. Si abbracciarono calorosamente. Ma mentre s’incamminavano lungo le vie tra le luci e le voci festose, la madre stava ancora pensando: "Le cose sono cambiate. Lei è cambiata. Non verrà mai più a casa".

Lebannen procedeva in mezzo alle sue guardie. Carico di tensione e di energia, era regale, bellicoso, raggiante. — Erreth-Akbe! — acclamava la gente vedendolo, e: — Figlio di Morred! — Sui gradini del palazzo, lui si girò verso la folla. Aveva una voce possente quando voleva usarla, e adesso quella voce risuonò, zittendo il fracasso. — Ascoltate, gente di Havnor! La donna di Gont ha parlato per noi con un capo dei draghi. Hanno concordato una tregua. Uno di loro verrà da noi. Un drago verrà qui, nella città di Havnor, nel palazzo di Maharion. Non per distruggere, ma a parlamentare. È giunto il momento in cui uomini e draghi devono incontrarsi e discutere. Dunque io vi dico: quando il drago arriverà, non temetelo, non combattetelo, non fuggite, ma accoglietelo nel segno della pace. Salutatelo come salutereste un grande signore venuto in pace da lontano. E non abbiate paura. Perché siamo tutti protetti dalla spada di Erreth-Akbe, dall’Anello di Elfarran, e dal nome di Morred. E sul mio nome vi prometto che finché avrò vita difenderò questa città e questo regno!

La folla ascoltò in assoluto silenzio. Un coro di acclamazioni e di grida accompagnò la fine del discorso, mentre il re si voltava ed entrava a grandi passi nel palazzo. — Ho ritenuto opportuno avvisarli — disse a Tehanu, con l’abituale voce bassa e pacata, e lei annuì. Il re le si era rivolto come a un compagno, e la giovane si comportava come tale. Tenar e i cortigiani nei paraggi lo notarono.

Il sovrano diede disposizioni perché tutto il suo consiglio si riunisse al mattino alla quarta ora, poi l’assembramento si sciolse, ma il re tenne con sé la donna ancora un minuto mentre la figlia andava avanti. — È lei che ci protegge — disse.

— Da sola?

— Non temere per lei. È la figlia del drago, la sorella del drago. Va dove noi non possiamo andare. Non temere per lei, Tenar.

Lei piegò il capo in segno di accettazione. — Ti ringrazio per averla riportata da me sana e salva — disse. — Per un poco.

Erano soli, adesso, nel corridoio che conduceva agli appartamenti dell’ala ovest del palazzo. La donna alzò lo sguardo verso il sovrano e disse: — Ho parlato di draghi con la principessa.

— La principessa — ripeté lui, l’aria assente.

— Ha un nome. Non posso rivelartelo, dato che lei crede che potresti usarlo per distruggere la sua anima.

Lebannen aggrottò le ciglia.

— A Hur-at-Hur ci sono draghi. Piccoli, dice la principessa, e senza ali, e non parlano. Ma sono sacri. Il sacro simbolo della morte e della rinascita. Mi ha rammentato che la mia gente non va dove va la tua gente quando muore. Quella terra desolata di cui parla Alder, non è là che andiamo, noi. La principessa, e io, e i draghi.

L’espressione del re passò dalla reticenza circospetta alla viva attenzione. — Le domande di Ged a Tehanu — fece sottovoce. — Sono queste le risposte?

— So solo quello che la principessa mi ha detto, o rammentato. Parlerò con Tehanu di queste cose, questa notte.

Il re corrugò la fronte, meditando; poi si rasserenò. Si chinò a baciare Tenar su una guancia, augurandole la buonanotte. Si allontanò a grandi passi e lei restò a osservarlo. La inteneriva, l’abbagliava, ma lei non era cieca. Pensò: "Ha ancora paura della principessa".

La sala del trono era la stanza più vecchia del palazzo di Maharion. Era stata la sala di Gemal nato dal mare, principe di Ilien, divenuto re a Havnor, progenitore della regina Heru e del di lei figlio Maharion. Il Lai Havnoriano diceva:

Cento guerrieri, cento donne sedevano nella gran sala di Gemal alla tavola del re, cortesi nel parlare, bella e generosa gente nobile di Havnor, guerrieri di gran vaglia, donne di gran beltà.

Attorno a quella sala per oltre un secolo gli eredi di Gemal avevano costruito un palazzo ancora più grande, e infine Heru e Maharion avevano eretto sopra di esso la torre di Alabastro, la torre della regina, la torre della spada.

Le torri s’innalzavano ancora; ma sebbene la gente di Havnor l’avesse chiamato per caparbietà il Nuovo palazzo nei lunghi secoli dopo la morte di Maharion, il palazzo era vecchio e in rovina quando Lebannen era salito al trono. Il re lo aveva ricostruito quasi interamente, e riccamente. I mercanti delle isole Interne, contenti di avere di nuovo un re e leggi che proteggessero il loro commercio, avevano pagato cospicui tributi e gli avevano offerto altro denaro per tutti quei lavori; nei primi anni del suo regno, non si erano mai lamentati che le tasse rovinassero i loro affari e avrebbero ridotto i loro figli in miseria. Così Lebannen aveva potuto far sì che il Nuovo palazzo tornasse davvero nuovo, e splendido. Ma la sala del trono, una volta ricostruito il soffitto, intonacati i muri di pietra, rimessi i vetri alle strette finestre, per volere del sovrano rimase spoglia come in passato.

Durante le brevi false dinastie e gli anni oscuri di tiranni e usurpatoli e signori pirati, attraverso gli oltraggi del tempo e dell’ambizione, il trono del regno era sempre rimasto in fondo alla lunga sala: una sedia di legno, dallo schienale alto, su una semplice predella. Una volta era rivestito d’oro. Il rivestimento era scomparso da un pezzo; i piccoli chiodi d’oro avevano lasciato delle fenditure nel legno nei punti in cui erano stati tolti. I cuscini e i drappi di seta erano stati rubati o distrutti dalle tarme e dai topi e dalla muffa. Nulla indicava che quel seggio fosse un trono, se non il luogo in cui si trovava e un intaglio sullo schienale, un airone in volo con un rametto di sorbo nel becco. Quello era lo stemma della casa di Enlad.

I re di quel casato erano venuti da Enlad a Havnor ottocento anni prima. Dov’era il seggio di Morred, là era il regno, si diceva.

Lebannen lo aveva fatto pulire, aveva fatto riparare e sostituire le parti di legno marcio, lucidare fino a riassumere il colore scuro originale, ma non aveva voluto che venisse dipinto o indorato. Alcuni ricchi che venivano ad ammirare il loro costoso palazzo reale si lamentavano della sala del trono e del trono stesso. — Sembra un granaio — dicevano, e: — È il seggio di Morred o la sedia di un vecchio contadino?

Al che, secondo alcuni, il sovrano aveva replicato: — Cos’è un regno senza i granai che lo nutrono e i contadini che coltivano il grano? — Altri dicevano che avesse replicato: — Il mio regno è fatto di fronzoli d’oro e di velluto, o si regge grazie alla forza del legno e della pietra? — Altri ancora dicevano che si fosse limitato a dire che a lui piaceva così. E poiché erano le sue natiche reali a sedere sul trono privo di cuscini, non erano i critici ad avere l’ultima parola.

In quella sala alta e austera, in una fresca mattina nebbiosa d’estate inoltrata, si riunì il Consiglio reale: novantuno uomini e donne, cento se fossero stati presenti tutti. Erano stati tutti scelti dal sovrano, alcuni a rappresentare le grandi case nobili e principesche delle isole Interne, vassalli della corona; altri come portavoce degli interessi di altre isole e parti dell’Arcipelago; altri ancora perché il re li riteneva utili e fidati consiglieri di stato, o si augurava si rivelassero tali. C’erano mercanti, spedizionieri e fattori di Havnor e delle altre grandi città portuali del mare di Ea e del mare Interno, splendidi con il loro portamento solenne nelle loro vesti scure di seta pesante. C’erano maestri delle corporazioni dei lavoratori, flessibili e astuti conduttori di trattative, tra cui spiccava una donna dagli occhi chiari e le mani callose, il capo dei minatori di Osskil. C’erano maghi di Roke come Onice, con mantelli grigi e bastoni di legno. C’era pure un mago pelnico, chiamato maestro Seppel, che non portava alcun bastone, e da cui la maggior parte della gente si teneva alla larga, sebbene sembrasse abbastanza mite. C’erano nobildonne, giovani e vecchie, dei feudi e dei principati del regno, alcune in seta di Lorbanery e perle delle isole di Sabbia, e due isolane, corpulente, brutte e dignitose, una di Iffish e una di Korp, in rappresentanza della gente della Distesa est. C’erano poeti, dotti dei vecchi collegi di Ea ed Enlades, e parecchi capitani della soldatesca o delle navi reali.