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Le statue di pietra dell’assemblea continuarono a fissarlo, senza aprir bocca. Poi il principe Sege disse: — Vai, sire, vai con la nostra speranza e la nostra fiducia, e il vento magico nelle vele. — Dai consiglieri si levò un mormorio di approvazione: "Sì, sì, giusto…".

Sege chiese se ci fossero domande o altri punti da discutere, poi, dal momento che tutti tacevano, dichiarò chiusa la seduta.

Lasciando la sala del trono insieme a lui, il sovrano gli sussurrò: — Grazie, Sege.

E il vecchio principe replicò: — Tra te e il drago, Lebannen, cosa potevano dire quei poveretti?

4

Delfino

Bisognava sistemare varie questioni e provvedere ai preparativi, prima che il re potesse lasciare la capitale; c’era inoltre il problema di stabilire chi dovesse andare con lui a Roke. Irian e Tehanu, ovviamente, e l’ultima voleva la madre con sé. Onice sosteneva che Alder doveva assolutamente partire insieme a loro, e pure il mago pelnico, Seppel, perché il sapere di Paln aveva parecchi legami con le questioni relative al confine tra la vita e la morte. Il re affidò a Tosla il comando della Delfino, come già in passato. Il principe Sege si sarebbe occupato degli affari di stato in assenza del sovrano, con un gruppo scelto di consiglieri, com’era già avvenuto.

Tutto era pronto, dunque, o almeno così pensava Lebannen, finché Tenar non andò da lui due giorni prima della partenza e gli disse: — Discuterete di guerra e pace con i draghi, e di cose ancor più importanti, secondo Irian, cose che riguardano l’equilibrio di tutto il mondo di Earthsea. La gente delle terre dei Karg dovrebbe sentire queste discussioni ed esprimere la propria opinione.

— Li rappresenterai tu.

— No. Io non sono un suddito del sommo re. L’unica persona qui che possa rappresentare il suo popolo, è sua figlia.

Il re si allontanò di un passo, si girò parzialmente e . infine, la voce alterata dallo sforzo di frenare la collera, replicò: — Sai benissimo che lei non è assolutamente adatta a un’impresa dell’importanza di questo viaggio.

— Non lo so affatto.

— È incolta.

— È intelligente, pratica, coraggiosa. È consapevole di cosa comporti il suo rango. Non l’hanno educata al governo ma del resto cosa può imparare, rinchiusa nella Casa del fiume con le sue ancelle e qualche dama di corte?

— A parlare la lingua, in primo luogo!

— La sta imparando. Le farò io da interprete, quando sarà necessario.

Dopo una breve pausa, Lebannen parlò ponderando le parole. — Capisco la tua sollecitudine verso la sua gente. Penserò a cosa si può fare. Ma la principessa non può prendere parte a questo viaggio.

— Tehanu e Irian dicono che invece dovrebbe venire con noi. Maestro Onice afferma che, come per Alder di Taon, il fatto che sia stata mandata qui proprio adesso non può essere un semplice caso.

Il re arretrò ancora. Il suo tono, pur freddo, si mantenne paziente e garbato. — Non posso permetterlo. La sua ignoranza e la sua inesperienza farebbero di lei un fardello gravoso. E non posso mettere a repentaglio la sua incolumità. I rapporti con suo padre…

— Nella sua insipienza, ci ha indicato come rispondere agli interrogativi di Ged. Tu le manchi di rispetto esattamente come suo padre. Parli di lei come se fosse un essere privo di intelletto. — Il viso di Tenar era pallido di rabbia. — Se temi di mettere a repentaglio la sua incolumità, lascia che sia lei a decidere se è disposta a rischiare.

Ci fu di nuovo silenzio. Poi Lebannen parlò con la stessa rigida calma, evitando di guardare la donna. — Se tu, Tehanu e Orm Irian ritenete che quella ragazza debba venire con noi a Roke, e Onice è d’accordo con voi, accetto il vostro giudizio, anche se penso che sia sbagliato. Per favore, comunicale che se desidera venire, può farlo.

— Dovresti comunicarglielo tu.

Lui rimase zitto. Uscì dalla stanza senza una parola.

Passò accanto a Tenar, e pur non guardandola, la vide in modo chiaro. Sembrava vecchia e tesa, e le tremavano le mani. Provò compassione per lei, si vergognò del proprio comportamento brusco, si sentì un po’ sollevato al pensiero che nessun altro aveva assistito alla scena; ma quei sentimenti erano mere scintille nell’immensa oscurità della collera che provava nei confronti della donna, della principessa, di tutti quelli che gli imponevano quel falso obbligo, quel compito grottesco. Lasciando la stanza, si aprì il colletto della camicia come se lo stesse soffocando.

Il suo maggiordomo, un uomo serio e ottuso di nome Ognibene, non si aspettava che tornasse così presto, e balzò in piedi, fissandolo allarmato. Il re lo squadrò gelido e ordinò: — Manda a chiamare la somma principessa perché si presenti da me nel pomeriggio.

— La somma principessa?

— Quante somme principesse ci sono, qui? Non lo sai che la figlia del sommo re è nostra ospite?

Sorpreso, il maggiordomo balbettò qualche parola di scusa, che il sovrano interruppe annunciando: — No. Andrò io stesso alla Casa del fiume. — Uscì a grandi passi, inseguito, ostacolato, e quasi trattenuto dal maggiordomo, che lo costrinse ad attendere il tempo necessario per radunare una scorta adeguata, far arrivare i cavalli dalle stalle, rinviare al pomeriggio l’udienza ai postulanti che aspettavano nella Sala lunga, e così via. Tutti i suoi obblighi, tutti i suoi doveri, tutte le pastoie e gli impedimenti, i riti e le ipocrisie che facevano di lui un re lo invischiavano, risucchiandolo come sabbie mobili e soffocandolo.

Quando un servitore, attraversando il cortile delle stalle, gli portò il cavallo, Lebannen saltò in sella in modo così repentino che l’animale fu contagiato dall’umore del sovrano, arretrò e s’impennò, costringendo stallieri e servitori a portarsi a debita distanza. Vedendo quel cerchio di gente che si allargava attorno a lui, il re provò una truce soddisfazione. Diresse il cavallo verso l’uscita del cortile senza attendere che gli uomini della scorta montassero in sella. Li guidò a un trotto sostenuto nelle vie della città, precedendoli di parecchio, consapevole del dilemma del giovane ufficiale che avrebbe dovuto avanzare in fila gridando: "Largo al re!" ma che era rimasto indietro e adesso non osava superarlo.

Era quasi mezzogiorno; le vie e le piazze di Havnor erano calde e luminose, e per lo più deserte. Udendo il rumore degli zoccoli dei cavalli, la gente si affrettava ad affacciarsi sulla soglia delle piccole botteghe buie, osservando, riconoscendo il sovrano e salutandolo. Delle donne sedute alle finestre a farsi vento e a chiacchierare con le dirimpettaie guardarono in basso e agitarono la mano, e una di loro gettò un fiore al re. Gli zoccoli del suo cavallo risuonarono sui mattoni di un’ampia piazza bruciata dal sole e completamente deserta, a parte un cane con la coda arricciata che si allontanò trotterellando su tre zampe, infischiandosene della presenza di sua maestà. Lasciando la piazza, imboccò uno stretto passaggio che conduceva alla via lastricata lungo il Serrenen, e la percorse all’ombra dei salici sotto le vecchie mura, fino alla Casa del fiume.

La cavalcata aveva cambiato alquanto il suo umore. La calura, il silenzio e la bellezza della città, il senso della moltitudine di vite dietro i muri e le imposte, il sorriso della donna che gli aveva lanciato un fiore, la piccola soddisfazione di essersi lasciato alle spalle tutti i suoi custodi e cerimonieri e infine la frescura e i profumi del lungofiume e il cortile ombreggiato della casa dove aveva conosciuto giorni e notti di pace e di piacere, tutto questo contribuiva a placare un poco la sua collera. Si sentiva estraniato da se stesso, non più posseduto, ma svuotato.