I primi uomini della scorta stavano arrivando nel cortile quando il re smontò da cavallo, lasciando l’animale all’ombra. Entrò nella casa, piombando tra domestici appisolali come un sasso che cade in uno stagno tranquillo, creando attorno a sé cerchi sempre più ampi di sgomento e panico. Disse: — Dite alla principessa che sono qui.
Lady Opale del vecchio dominio di Ilien, attualmente a capo delle dame di compagnia della principessa, accorse sollecita, lo salutò cortese, gli offrì cibo e bevande, si comportò come se la sua visita non fosse affatto una sorpresa. Quell’affabilità in parte lo calmò, ma in parte aumentò la sua irritazione. Ipocrisia incessante! Ma cosa avrebbe dovuto fare lady Opale… boccheggiare come un pesce fuor d’acqua (come stava facendo una dama di compagnia giovanissima) perché il re finalmente e inaspettatamente era venuto a trovare la principessa?
— Mi dispiace che lady Tenar non sia qui al momento — disse lady Opale. — Con il suo aiuto è molto più facile conversare con la principessa. Ma la principessa sta facendo progressi encomiabili con la nostra lingua.
Aveva dimenticato il problema della comunicazione. Accettò la bevanda fresca offertagli e non disse nulla. Lady Opale chiacchierò del più e del meno, aiutata dalle altre dame, non riuscendo quasi a scalfire il mutismo del sovrano. Egli aveva cominciato a rendersi conto che probabilmente ci si aspettava che lui parlasse con la principessa in compagnia di tutte le sue ancelle, come richiedevano le convenienze. Qualunque cosa intendesse dirle, adesso non era più possibile. Stava per alzarsi e congedarsi, quando una donna con la testa e le spalle nascoste da un velo rosso apparve sulla soglia, si gettò in ginocchio, e disse: — Per favore? Re? Principessa? Per favore?
— La principessa ti riceverà nelle sue stanze, sire — tradusse lady Opale. Fece un cenno a un valletto, che accompagnò il sovrano al piano di sopra, lungo un corridoio, passando da un’anticamera, attraverso una grande stanza buia che pareva piena di donne con il velo, e infine all’esterno, su un balcone affacciato sul fiume. Là, Lebannen vide la figura che ricordava: il cilindro immobile color rosso e oro.
La brezza faceva ondeggiare leggermente i veli, e la figura non sembrava solida, ma delicata, mobile, tremolante, come il fogliame dei salici. Si contrasse, si accorciò. La principessa gli stava facendo la riverenza. Lui s’inchinò. Poi entrambi si drizzarono e rimasero in silenzio.
— Principessa — esordì, con una sensazione d’irrealtà, udendo la propria voce. — Sono qui per chiederti di venire con noi a Roke.
Lei non disse nulla. Il re vide i sottili veli rossi schiudersi in un ovale mentre la ragazza li spostava con le mani. Mani dalle lunghe dita, dalla pelle dorata, scostate per mostrare il volto nell’ombra scarlatta. Lebannen non riuscì a vedere i lineamenti in modo chiaro. Era alta quasi quanto lui, e i suoi occhi lo fissavano.
— La mia amica Tenar — fece la principessa — dice: "Re vedere re, faccia a faccia". Io dico: "Sì, io vedo".
Comprendendo in parte, s’inchinò nuovamente. — Mi onori, mia signora.
— Sì — disse lei. — Io onoro te.
Lui esitò. Quello era un terreno completamente diverso. Quello proprio della principessa.
Lei era dritta e immobile, l’orlo dorato dei veli che tremolava, gli occhi che lo fissavano dall’ombra.
— Tenar, e Tehanu, e Orm Irian, sostengono che sarebbe opportuno che la principessa delle terre dei Karg fosse con noi a Roke. Quindi ti chiedo di venire con noi.
— Venire.
— All’isola di Roke.
— In nave — disse lei, e di colpo emise una specie di gemito sommesso. Poi concluse: — Sì. Io verrò.
Non sapendo cos’altro aggiungere, Lebannen fece: — Grazie, mia signora.
La principessa annuì una volta, da pari a pari.
Lui s’inchinò. Si congedò da lei come gli avevano insegnato da suo padre il principe nelle occasioni ufficiali alla corte di Enlad, senza volgere la schiena, ma arretrando.
La principessa continuò a tenere aperto il velo finché lui non giunse alla porta. Poi abbassò le mani, i veli si richiusero e il re la sentì sospirare forte, forse provava un grande sollievo dopo aver compiuto un arduo sforzo di volontà.
Coraggiosa, l’aveva definita Tenar. Lebannen non capiva, ma sapeva di avere assistito a qualcosa di ardito. Tutta la collera che lo aveva invaso, che lo aveva condotto lì, era scemata, sparita. Non era stato risucchiato e soffocato, ma portato di colpo di fronte a una roccia, un luogo elevato all’aria pura, una verità.
Attraversò la stanza piena di donne bisbiglianti, profumate, velate, che al suo passaggio si ritrassero nell’oscurità. Al pianterreno, chiacchierò un poco con lady Opale e le altre, e disse una buona parola per la dama di compagnia dodicenne rimasta a bocca aperta. Parlò affabile agli uomini della scorta che lo aspettavano in cortile. Montò senza scomporsi sul suo maestoso cavallo grigio. E cavalcando tranquillo, pensoso, tornò al palazzo di Maharion.
Alder apprese con rassegnazione fatalistica di doversi imbarcare nuovamente alla volta di Roke. Le sue ore di veglia erano diventate così strane per lui, più irreali dei sogni, che non aveva la voglia e la forza di fare domande o protestare. Se era destinato a veleggiare di isola in isola per il resto della vita, ebbene, così fosse; sapeva che adesso per lui non esisteva la benché remota possibilità di tornare a casa. Per lo meno, sarebbe stato in compagnia di Tenar e Tehanu, che gli infondevano serenità e pace. E anche il mago Onice era stato buono con lui.
Alder era un uomo timido e Onice un uomo molto riservato, e c’era l’enorme divario di conoscenza e rango da colmare; ma il mago era andato da lui varie volte semplicemente per parlare da uomo dell’arte a uomo dell’arte, mostrando per la sua opinione un rispetto che sconcertava la sua modestia. Non poteva negargli fiducia, e quando si avvicinava ormai il momento della partenza, gli sottopose il problema che lo angustiava.
— Si tratta del gatto — esordì imbarazzato. — Non mi sembra giusto portarlo con me. Tenerlo rinchiuso per tanto tempo. Non è una cosa naturale per una bestiola. E mi chiedo, che ne sarebbe di lui…
L’altro non domandò cosa intendesse dire. Chiese solo: — Ti aiuta ancora a stare lontano dal muro di pietra?
— Be’, sì, spesso.
Onice rifletté. — Ti occorre qualche protezione, finché non saremo a Roke. Ho pensato… Hai parlato con il mago Seppel?
— L’uomo di Paln — fece Alder, con un tono di lieve inquietudine.
Paln, la più grande isola a Ovest di Havnor, era ritenuta un luogo misterioso. I pelnici parlavano hardico con un accento particolare, usando molte parole proprie. I loro signori nell’antichità si erano rifiutati di giurare fedeltà ai re di Enlad e Havnor. I loro maghi non andavano a Roke ad apprendere l’arte. Il sapere pelnico, che si ricollegava ai Vecchi poteri della terra, era ritenuto da molti pericoloso, se non malvagio. Tempo addietro, il mago Grigio di Paln aveva portato la sventura sulla propria isola evocando le anime dei morti perché aiutassero lui e i suoi signori, e quel racconto faceva parte dell’ammaestramento di ogni stregone. "I vivi non dovrebbero chiedere consiglio ai morti." C’era stato più di un duello di magia tra un uomo di Roke e un uomo di Paln; uno di tali scontri, due secoli addietro, aveva provocato una calamità che si era abbattuta sulle genti di Paln e Semel, e aveva devastato una buona metà delle città e delle terre coltivate. Quindici anni prima, quando il mago Cob aveva usato il sapere pelnico per varcare il confine tra la vita e la morte, l’arcimago Sparviere aveva impiegato tutto il proprio potere per sconfiggerlo e sanare il male compiuto.
Alder, come quasi tutti a corte e nel Consiglio reale, aveva educatamente evitato il mago Seppel.