— Ho chiesto al re di portarlo con noi a Roke — disse Onice.
Alder batté le palpebre, sorpreso.
— Sanno più cose di noi riguardo queste faccende — spiegò il mago. — Gran parte della nostra arte d’evocazione deriva dal sapere pelnico. Thorion era un maestro di quell’arte… L’evocatore che è adesso a Roke, Brando di Venway, non vuole usare nulla che s’ispiri a quel sapere. Adoperato male, ha causato solo danno. Ma può darsi che sia stata solo la nostra ignoranza a indurci a impiegarlo nel modo sbagliato. Risale a tempi antichissimi; forse contiene conoscenze che noi abbiamo smarrito. Seppel è un saggio e un mago. Penso che debba venire con noi. E penso che possa aiutarti, se riesci a fidarti di lui.
— Se ha la tua fiducia — disse l’altro — allora avrà anche la mia.
Quando Alder parlava con l’eloquenza di Taon, spesso Onice sorrideva con lieve ironia. — Il tuo giudizio vale quanto il mio, Alder, in questa faccenda — osservò. — O è anche migliore. Spero che tu te ne serva. In ogni modo, ti porterò da lui.
Così, scesero in città insieme. L’alloggio di Seppel si trovava in un quartiere vecchio, nei pressi degli scali navali, in una traversa di via dei Carpentieri; là c’era una piccola colonia di pelnici, chiamati a lavorare nei cantieri reali perché erano costruttori navali abilissimi. Le case erano molto vecchie, ravvicinate, con i tipici ponti tra un tetto e l’altro che davano alla città una seconda rete aerea di strade sopra quelle lastricate.
Le stanze di Seppel, cui si accedeva salendo tre rampe di scale, erano buie e afose nella calura dell’estate inoltrata. Il mago li invitò a salire un’altra rampa e li portò sul tetto. Era unito agli altri tetti da un ponte su ogni lato, e formava quindi un crocicchio con tanto di via principale e traverse. Fissate alle basse balaustre c’erano delle tende da sole, e la brezza che spirava dal porto rinfrescava l’aria all’ombra. Si sedettero su alcune stuoie di tela a righe nell’angolo di tetto occupato da Seppel, e sorseggiarono insieme un tè freddo leggermente amaro.
Era un uomo basso sulla cinquantina, rotondetto, con mani e piedi piccoli, capelli un po’ ricciuti e ribelli, e, cosa rara tra gli uomini dell’Arcipelago, una barba, corta, sul mento e le gote scure. Aveva modi gentili. Parlava sottovoce, con un accento musicale e una cadenza rapida che spezzava le parole.
Lui e Onice conversarono, e Alder li ascoltò a lungo. Cominciò a distrarsi quando parlarono di persone e cose che non conosceva. Osservò i tetti e i tendoni, i giardini pensili e i ponti ad arco intagliati; spinse lo sguardo a nord, verso il monte Onn, una grande cupola grigio chiaro sopra le colline velate dalla foschia estiva. Tornò al presente, sentendo che il mago pelnico diceva: — Forse nemmeno l’arcimago è riuscito a sanare del tutto la ferita aperta nel mondo.
La ferita nel mondo, pensò Alder: sì. Allora fissò Seppel, e questi gli lanciò uno sguardo. Nonostante l’aspetto mite, i suoi occhi erano acuti e penetranti.
— Forse non è solo il nostro desiderio di vivere per sempre quello che ha tenuto aperta la ferita — disse — ma il desiderio dei morti di morire.
Di nuovo, Alder udì le strane parole e gli parve di riconoscerle senza capirle. Seppel gli lanciò un’altra occhiata, quasi in attesa di una reazione.
Alder non disse nulla, e nemmeno Onice parlò. Il pelnico alla fine disse: — Quando sei al confine, maestro Alder, cos’è che ti chiedono?
— Di liberarli — rispose lui, la voce un semplice sussurro.
— Liberarli — mormorò il suo compagno.
Ancora silenzio. Due ragazzi e una ragazza attraversarono il tetto di corsa, ridendo e gridando: — Giù al prossimo! — giocando a uno dei tantissimi giochi d’inseguimento che i bambini facevano grazie al labirinto di strade, canali, scale e ponti della loro città.
— Forse è stato un cattivo affare fin dall’inizio — disse Seppel, e quando Onice gli rivolse uno sguardo interrogativo aggiunse: — Verw nadan.
Alder sapeva che erano parole della Vecchia lingua, ma non ne conosceva il significato.
Guardò l’amico, che aveva assunto un’espressione molto seria. Quello si limitò a dire: — Ebbene, spero giungeremo alla verità di queste cose, e presto.
— Sul colle dove la verità è — disse Seppel.
— Sono contento che sarai là con noi. Intanto, qui abbiamo Alder che viene chiamato a quel confine ogni notte e cerca un po’ di sollievo. Gli ho detto che forse conosci il modo di aiutarlo.
— E tu accetteresti il tocco della magia di Paln? — chiese il piccolo mago, in tono di lieve ironia. I suoi occhi erano lucenti e duri come giaietto.
Alder aveva le labbra secche. — Maestro — rispose — sulla mia isola diciamo che l’uomo che sta annegando non chiede quanto costa la corda. Se puoi tenermi lontano da quel luogo anche per una sola notte, avrai i miei più fervidi ringraziamenti, per quanto siano ben poca cosa in cambio di un simile dono.
Onice lo fissò, abbozzando un sorriso divertito, senza alcun intento di biasimo.
L’altro non sorrise affatto. — I ringraziamenti sono rari, nel mio mestiere — osservò. — Li apprezzo molto. Penso di poterti aiutare, maestro Alder. Però devo avvisarti che la corda è una corda costosa.
Alder piegò il capo.
— Giungi al confine in sogno, non di tua volontà, è così?
— Così credo.
— Risposta saggia. — Quello gli lanciò un’occhiata di approvazione. — Chi conosce in modo chiaro la propria volontà? Ma se è in sogno che vai là, io posso impedirti di fare quel sogno… per qualche tempo. E a un prezzo, come ho detto.
Alder lo guardò con aria interrogativa.
— Il tuo potere.
Dapprima, non capì, poi fece: — Il mio talento, intendi dire? La mia arte?
Seppel annuì.
— Sono soltanto un riparatore — disse Alder, dopo una breve pausa. — Non è un grande potere… non dovrò rinunciare a granché.
Onice fece per protestare, ma guardò il volto dell’amico e si trattenne.
— È la tua vita — disse.
— Era la mia vita, un tempo. Ma quel tempo è finito.
— Forse riacquisterai il tuo talento, quando quel che deve accadere sarà accaduto. Non posso prometterlo, però. Cercherò di fare il possibile per restituirti almeno in parte quanto ti toglierò. Ma camminiamo tutti nella notte, adesso, su un terreno che non conosciamo. Quando spunterà il giorno, forse sapremo dove siamo, o forse no. Ora, se ti eviterò il tuo sogno, a quel prezzo, mi ringrazierai?
— Sì, ti ringrazierò — rispose Alder. — Cos’è mai la piccola utilità del mio dono, rispetto al grande male che la mia ignoranza potrebbe fare? Se mi eviterai la paura in cui vivo adesso, la paura di essere causa di calamità, ti ringrazierò fino al termine della mia vita.
Seppel trasse un respiro profondo. — Ho sempre sentito dire che la arpe di Taon non suonano note false — dichiarò. Guardò Onice. — E Roke non ha alcuna obiezione? — chiese, riassumendo un tono di blanda ironia.
Quello scosse il capo, ora serissimo.
— Allora andremo alla caverna di Aurun. Questa sera, se per voi va bene.
— Perché là? — domandò Onice.
— Perché non sarò io, bensì la terra, ad aiutare Alder. Aurun è un luogo sacro, pieno di potere. Anche se la gente di Havnor l’ha dimenticato, e lo usa solo per lordarlo.
Onice riuscì a scambiare qualche parola in privato con il giovane, prima che seguissero Seppel verso i piani inferiori. — Non sei obbligato a farlo, Alder — disse. — Pensavo di fidarmi di lui, ma adesso… non so…
— Mi fiderò di lui — fece Alder. Comprendeva i dubbi dell’amico, ma lui non aveva parlato con leggerezza, era disposto a tutto pur di liberarsi della paura di fare qualcosa di terribilmente sbagliato. Ogni volta che in sogno si sentiva attrarre verso quel muro di pietra, aveva la sensazione che qualcosa stesse cercando di penetrare nel mondo tramite lui, che lo avrebbe fatto, se lui avesse ascoltato il richiamo dei morti… e ogni volta che li udiva era sempre più debole, ed era più difficile resistere al loro richiamo.