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I tre uomini percorsero parecchia strada, attraversando la città nella calura del pomeriggio. Uscirono nella campagna a sud dell’abitato, in un punto dove delle colline accidentate colme di creste scendevano verso la baia, un tratto di terreno povero per quell’isola ricca: bassopiani paludosi tra i picchi, un po’ di terra arabile sui dorsi sassosi. Lì, le mura della città erano molto antiche, erette a secco con grandi massi presi dalle colline, e oltre la muraglia non c’erano sobborghi, solo poche fattorie.

Camminarono lungo una strada accidentata che saliva serpeggiando sul primo crinale, procedendo poi sulla cresta in direzione est, verso le colline più alte. Lassù, da dove si poteva contemplare tutta la città adagiata a nord in una foschia dorata, alla loro sinistra, la strada si allargava in un labirinto di sentieri. Procedendo diritto, giunsero all’improvviso a una grande spaccatura nel terreno, uno squarcio nero largo più di venti piedi, proprio davanti a loro.

Era come se il dorso roccioso si fosse spezzato in seguito a un scossa violenta del suolo, e la fenditura non si fosse più richiusa. La luce del sole, lambendo da Ovest i bordi della caverna, rischiarava per un breve tratto le pareti di roccia verticali, ma più in basso l’oscurità era assoluta.

Nella valle sotto il crinale, a sud, c’era una conceria. I conciatori avevano portato lassù i loro rifiuti, gettandoli nella spaccatura, senza porre la minima attenzione, così tutt’attorno alla voragine erano disseminati pezzi di pelle rancida parzialmente conciata e si odorava un tanfo di marciume e di orina. Dal profondo della caverna proveniva un’altra esalazione, notarono, mentre si avvicinavano all’orlo a picco: una zaffata terrosa, fredda, pungente, che fece arretrare Alder.

— Mi affliggo per questo, mi affliggo per questo! — disse ad alta voce il mago di Paln, guardando l’immondizia e i tetti della conceria con un’espressione attonita. Ma poco dopo si rivolse ad Alder con i soliti modi garbati. — Questa è la caverna o fenditura chiamata Aurun, che noi conosciamo a Paln dalle nostre mappe più antiche, dove è pure chiamata le Labbra di Paor. Un tempo parlava alle genti del luogo, quando arrivarono qui la prima volta dall’Ovest, molto tempo fa. Gli uomini sono cambiati. Ma la caverna è rimasta ciò che era allora. Qui, tu puoi deporre il tuo fardello, se è questo che desideri.

— Cosa devo fare? — chiese Alder.

Seppel lo condusse all’estremità sud della grande spaccatura nel terreno, dove lo squarcio si restringeva e si richiudeva formando tante sporgenze rocciose. Gli disse di stendersi a faccia in giù, così da poter scrutare l’abisso di oscurità che si apriva in basso sotto di lui. — Aggrappati alla terra — disse. — Devi fare solo questo. Anche se si muove, tieniti artigliato alla terra.

Lui si coricò, fissò lo spazio tra le pareti di pietra. Sentì le sporgenze di roccia che gli pungevano il petto e i fianchi, udì Seppel che iniziava a salmodiare con voce acuta, intonando un canto nella Lingua della creazione; sentì il calore del sole sulle spalle, e il tanfo di putredine della conceria. Poi il respiro della caverna scaturì dal profondo con un’asprezza sorda che gli mozzò il respiro e gli fece girare la testa. L’oscurità salì verso di lui. Il terreno sotto di lui si mosse, ondeggiò e tremò, e Alder vi si aggrappò, udendo il canto acuto, respirando il respiro della terra. L’oscurità salì e lo prese. Alder perse il sole.

Quando tornò, il sole era basso a Ovest, una palla rossa nella foschia sopra le rive occidentali della baia. Lo vide. Vide Seppel seduto lì accanto sul terreno, l’aria stanca e sconsolata, la sua lunga ombra nera sulla terra sassosa tra le ombre lunghe delle rocce.

— Ecco fatto — disse Onice.

Alder si accorse di essere steso sul dorso, con la testa sulle ginocchia dell’amico, e una roccia piantata nella schiena. Si drizzò a sedere, intontito, scusandosi.

Partirono non appena lui fu in grado di camminare, perché dovevano percorrere diverse miglia ed era evidente che né lui né Seppel avrebbero potuto tenere un’andatura spedita. Era calata la notte, quando raggiunsero via dei Carpentieri. Seppel li salutò, scrutando il volto del risanato mentre erano fermi nel riquadro di luce che filtrava dalla porta di una taverna. — Ho fatto quanto mi avevi chiesto — disse, con la stessa espressione infelice.

— Ti ringrazio. — Alder tese la destra al mago, secondo l’usanza della gente di Enlades. Dopo un istante, quello la toccò con la propria mano; e così si separarono.

Era talmente stanco che riusciva a muovere le gambe a stento. Aveva ancora in bocca e in gola il sapore strano e acre dell’aria della caverna, che gli dava un senso di stordimento, di vertigine, di vuoto. Quando infine giunsero al palazzo, Onice voleva accompagnarlo in camera, ma lui disse che stava bene e aveva solo bisogno di riposare.

Entrò nella propria stanza, e il gatto gli andò incontro festoso, trotterellando e agitando la coda. — Ah, non ho più bisogno di te, adesso — disse lui, chinandosi ad accarezzargli la schiena grigia lustra. Gli vennero le lacrime agli occhi. Colpa della stanchezza, nient’altro. Si coricò sul letto, e il gatto lo seguì con un balzo e gli si acciambellò su una spalla, facendo le fusa.

Alder dormì: un sonno profondo, un nero assoluto, senza alcun sogno che potesse ricordare, senza voci che chiamassero il suo nome, senza alcuna collina di erba secca, né alcun muro di pietra intravisto nelle tenebre… nulla.

Passeggiando nei giardini del palazzo la sera prima di salpare verso sud, Tenar era inquieta e malinconica. Non voleva partire per Roke, l’isola dei saggi, l’isola dei maghi. "Maledetti-stregoni" disse una voce nella sua mente, in kargico. Cosa avrebbe dovuto fare lei, là? Di quale utilità poteva essere? Lei voleva andare a casa, a Gont, da Ged. Tornare nella propria casa, al proprio lavoro, dal caro compagno.

Si era allontanata da Lebannen. Lo aveva perso. Il re era educato, affabile, e non perdonava.

Come temevano le donne, gli uomini, pensò camminando tra gli arbusti di rose fioriti. Non le temevano come individui, ne avevano paura quando queste parlavano insieme, lavoravano insieme, prendevano la parola in favore delle altre… allora gli uomini vedevano complotti, intrighi, coercizioni, trappole che venivano tese.

Avevano ragione, naturalmente. Era probabile che le donne, in quanto tali, prendessero le parti della generazione futura, non di quella attuale; tessevano i legami che gli uomini vedevano come catene, i vincoli che gli uomini vedevano come schiavitù. Lei e Seserakh erano davvero in combutta contro di lui e pronte a tradirlo, se Lebannen considerava veramente irrinunciabile la propria indipendenza. Se era solo aria e fuoco, se non aveva in sé il peso della terra, la pazienza dell’acqua…

Ma quella descrizione si addiceva non tanto al re quanto invece a Tehanu. Era ultraterrena, la sua Tehanu… l’anima alata che era venuta a stare con lei per un po’ e presto — lei lo sapeva — avrebbe dovuto lasciarla. Dal fuoco al fuoco.

E si addiceva a Irian, con cui la figlia sarebbe andata. Cosa aveva a che fare, quella creatura fiera e splendente, con una vecchia casa che bisognava spazzare, con un vecchio che aveva bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui? Come poteva capire certe cose, Irian? Cosa poteva significare per lei — lei che era un drago — che un uomo dovesse svolgere il proprio compito, sposarsi, avere dei figli, condurre il giogo della terra?

Vedendosi sola e inutile tra esseri dal destino così elevato e inumano, Tenar cedette alla nostalgia. Nostalgia non solo di Gont. Perché non avrebbe dovuto essere in combutta con Seserakh, che era sì una principessa come lei stessa un tempo era stata sacerdotessa, ma che non avrebbe preso il volo con ali impetuose, essendo del tutto una donna della terra? E la ragazza parlava la sua lingua! Tenar, solerte, le aveva insegnato l’hardico, ed era stata felicissima di constatare la sua rapidità di apprendimento, e si rendeva conto soltanto adesso che la vera felicità era stata parlare in kargico con lei, di sentire e pronunciare parole che racchiudevano tutta la propria infanzia perduta.