Tehanu l’aveva aspettata accanto al sovrano, e adesso si fece avanti, le parlò e la condusse alla cabina di poppa della nave, dove gli spessi veli ondeggianti scomparvero. La folla acclamò e gridò ancor più forte: — Torna indietro, principessa! Dov’è la Rossa? Dov’è la nostra signora? Dov’è la regina?
Tenar guardò il re attraverso il ponte. Malgrado l’apprensione e la malinconia che provava, sentì sgorgare dentro di sé un’ilarità irrefrenabile. Pensò: "Povero figliolo, cosa farai, adesso? Si sono innamorati di lei la prima volta che l’hanno vista, anche se non hanno potuto vederla davvero… Oh, Lebannen, siamo tutti in combutta contro di te!".
La Delfino era una nave di discrete dimensioni, attrezzata per trasportare un sovrano con una certa misura di pompa e comodità. Era però fatta innanzitutto per navigare, per filare con il vento, per portarlo a destinazione il più rapidamente possibile. Gli alloggi erano già abbastanza ristretti quando a bordo c’erano solo l’equipaggio e gli ufficiali, il re e pochi compagni. In quel viaggio a Roke, le cabine erano letteralmente stipate. I membri dell’equipaggio, certo, non stavano più scomodi del solito, dormendo nella specie di canile alto tre piedi della stiva di prua; ma gli ufficiali dovevano dividere uno squallido stanzino buio sotto il castello di prua. Quanto ai passeggeri, le quattro donne occupavano quella che era normalmente la cabina reale, uno spazio ampio quanto lo stretto castello di poppa, mentre la cabina sotto di essa, occupata di solito dal capitano della nave e da un paio di ufficiali, ospitava il sovrano, i due maghi, lo stregone, e Tosla. Le probabilità che tale sistemazione provocasse estremi disagi e malumore erano, secondo Tenar, enormi. Il primo e più urgente problema, comunque, era la probabilità che la somma principessa avesse il mal di mare.
Stavano solcando la Grande baia con un vento lieve, l’acqua calma, la nave che scivolava leggera come un cigno in uno stagno; ma Seserakh era rannicchiata nella propria cuccetta, gemendo disperata ogni volta che, guardando attraverso i veli, dalle ampie finestre di poppa scorgeva la distesa assolata e pacifica di mare tranquillo, e la scia bianca della nave.
— Va su e giù — piagnucolò in kargico.
— Non va su e giù — replicò Tenar. — Usa la testa, principessa.
— Si tratta del mio stomaco, non della testa — gemette Seserakh.
— Nessuno può avere il mal di mare con questo tempo. Tu hai solo paura.
— Madre — intervenne Tehanu, comprendendo il tono, se non le parole. — Non rimproverarla. È brutto, stare male.
— Lei non sta male! — sbottò Tenar, sicurissima di avere ragione. — Seserakh, tu non stai male. Hai paura di star male. Controllati. Esci sul ponte. L’aria fresca ti gioverà moltissimo. L’aria fresca e il coraggio.
— Oh, amica mia — mormorò la giovane in hardico. — Fammi coraggio!
Tenar fu colta un po’ alla sprovvista. — Sei tu che devi farti coraggio, principessa — disse. Poi, addolcendosi: — Andiamo, prova soltanto a uscire sul ponte un minuto. Tehanu, vedi se sei capace di persuaderla. Pensa a come soffrirà se incontreremo davvero il maltempo!
Insieme, convinsero Seserakh ad alzarsi dalla cuccetta e a indossare il cilindro di veli rossi, senza cui naturalmente non poteva apparire di fronte a degli uomini; blandendola e ricorrendo alle moine, la convinsero ad abbandonare la cabina, a uscire sul tratto di ponte di fianco ad essa, all’ombra, dove poterono sedersi sul rivestimento di legno bianco immacolato e guardare il mare azzurro luccicante.
La principessa scostò i veli quel tanto che bastava per vedere di fronte a sé, ma per lo più si contemplava il grembo, lanciando qualche rapido sguardo terrorizzato all’acqua, chiudendo subito gli occhi, e tornando a guardarsi la pancia.
Madre e figlia parlarono un po’, indicando le navi che passavano, gli uccelli, un’isola. — È bellissimo. Avevo dimenticato che mi piace moltissimo navigare! — commentò la donna.
— A me piace se riesco a dimenticare l’acqua — disse Tehanu. — È come volare.
— Ah, voi draghi — fece Tenar.
Il tono era scherzoso, però non era una facezia. Era la prima volta che diceva una cosa del genere alla figlia adottiva. Notò che lei aveva voltato il capo per guardarla frontalmente. Il cuore della matrigna cominciò a battere forte. — Aria e fuoco — disse.
Tehanu non disse nulla. Ma la sua mano, quella snella e bruna, non l’arto adunco, si allungò e afferrò quella della madre, stringendola.
— Non so cosa sono, madre — mormorò la giovane, con quella voce che di rado era più di un sussurro.
— Io, sì — disse la donna. E il cuore le batté più forte di prima, colmo di malinconia.
— Non sono come Irian — dichiarò Tehanu. Stava cercando di consolare la madre, di rassicurarla, ma nella sua voce si coglieva una nota di struggimento, di invidia, di desiderio intenso.
— Aspetta, aspetta e lo scoprirai — replicò sua madre, stentando a parlare. — Saprai cosa fare… cosa sei… quando verrà il momento.
Stavano conversando così piano che la principessa non sentiva quel che dicevano, ammesso che fosse in grado di capirlo. Si erano dimenticate di lei. Ma Seserakh aveva udito il nome di Irian, e scostando i veli con le lunghe dita e girandosi verso di loro, gli occhi che osservavano vivaci dalla calda ombra rossa, chiese: — Irian, dov’è?
— A prua… là in fondo… — Tenar indicò con un gesto vago la parte anteriore della nave.
— Lei si fa coraggio, eh?
Dopo un attimo, la donna disse: — Non credo che abbia bisogno di farsi coraggio. È senza paura.
— Ah — fu il commento della principessa.
I suoi occhi vivaci stavano scrutando dall’ombra tutto il ponte della nave fino a prua, dove Irian si trovava accanto a Lebannen. Il re stava indicando avanti, gesticolando, parlando con animazione. Rise, e così fece anche Irian, in piedi al suo fianco, alta quanto lui.
— Sfacciata, a viso scoperto — borbottò Seserakh in kargico. E in hardico, pensierosa, in un sussurro quasi impercettibile, soggiunse: — Senza paura.
Chiuse i veli e rimase seduta immobile, informe.
Le lunghe sponde di Havnor erano un profilo azzurro dietro di loro. Il monte Onn si stagliava indistinto e maestoso a nord. Le nere colonne di basalto dell’isola di Omer torreggiavano in lontananza sulla destra, mentre la nave attraversava lo stretto di Ebavnor alla volta del mare Interno. Il sole era splendente, il vento gagliardo, un’altra bella giornata. Tutte le donne sedevano sotto il tendone di tela che i marinai avevano allestito per loro accanto alla cabina di poppa. Le donne portavano fortuna a una nave, e l’equipaggio si faceva in quattro per colmarle di cortesie e offrire loro qualche piccola comodità. Dato che i maghi potevano portare bene o male a una imbarcazione, i marinai trattavano benissimo anche i maghi; il loro tendone era stato allestito in un angolo del cassero di poppa, da dove godevano di una buona visuale verso prua. Le donne avevano dei cuscini di velluto per sedersi (imbarcati grazie alla previdenza del sovrano, o del suo maggiordomo); i maghi avevano degli involti di tela da vele, altrettanto comodi.
Alder era trattato e rispettato come uno dei maghi. Non poteva farci nulla, anche se una simile considerazione lo imbarazzava, poiché temeva che Onice e Seppel pensassero che pretendesse di essere un loro simile. E misto all’imbarazzo c’era il turbamento, poiché adesso non era nemmeno uno stregone. Il suo dono era scomparso. Alder non aveva alcun potere. Ne era perfettamente consapevole, proprio come se avesse perso la vista o avesse avuto una mano paralizzata. Non avrebbe potuto riparare una brocca rotta, adesso, se non usando del collante; e comunque l’avrebbe riparata male, perché avrebbe dovuto usare altri mezzi.
E oltre al talento che aveva perso era scomparso qualcos’altro, qualcosa di più grande della sua maestria. Quella perdita lo aveva lasciato, come la morte della moglie, in una specie di vuoto inerte in cui non c’erano più gioie né cose nuove, né ci sarebbero state in futuro. Ormai non poteva accadere nulla, non poteva cambiare nulla.